Il Difficile Cammino dell’Umanità Verso l’Accettazione
Negli ultimi tempi, ho avuto lunghe conversazioni con mia cugina, che vive in Germania. Lei è alevita e ha sposato un ragazzo sunnita originario di Erzurum. Eppure, nonostante entrambi appartengano al popolo curdo, le differenze religiose sono bastate a creare muri. La famiglia del marito fatica ad accettarla, ritenendo gli aleviti culturalmente ed eticamente inferiori. Questo mi ha portato a riflettere su una dinamica universale: la tendenza dell’essere umano a costruire confini invisibili, a classificare, separare, giudicare.
Quante volte, da immigrati, ci siamo sentiti dire: “Se tutti fossero come voi, così integrati, sarebbe diverso”? Quante volte il nostro valore è stato misurato in base alla capacità di adattarci, di “assomigliare” alla cultura dominante? Ma questa non è una dinamica esclusiva delle migrazioni o della religione. Ovunque, gruppi diversi si osservano con sospetto. Il “diverso” fa paura.
Se ci spostassimo in un villaggio del Togo, del Senegal, del Congo, del Tibet, della Birmania o del Perù, troveremmo le stesse dinamiche: anche all’interno della stessa etnia, le tribù si guardano con diffidenza. Come se l’altro fosse meno degno, meno umano. È un istinto antico, quasi animale, nato dal bisogno di proteggere il proprio spazio. Ma qui nasce il paradosso: gli animali conoscono il proprio territorio e lo rispettano. Noi esseri umani, invece, non facciamo altro che invadere, appropriandoci, giudicando, alimentando paure e pregiudizi grandi come montagne.
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I Pregiudizi: Un Male da Eliminare o da Comprendere?
“Non dobbiamo avere pregiudizi”, si sente spesso dire. Ma è davvero possibile? Io non lo credo. Il pregiudizio fa parte dell’essere umano. Come diceva un mio professore, nasciamo con i pregiudizi, perché il nostro cervello li usa per orientarsi nel mondo. Il problema non è averli, ma esserne inconsapevoli. Il rischio è lasciare che ci governino.
Ogni famiglia ha i propri pregiudizi, perché ogni genitore teme di perdere i propri figli. Pensiamo all’educazione: spesso, per proteggerli, insegniamo ai bambini a diffidare del diverso. Ma crescendo dovremmo sviluppare strumenti più maturi, imparare a distinguere la prudenza dalla chiusura, la difesa dalla paura.
L’intelligenza emotiva ha un ruolo chiave: ci insegna a riconoscere le emozioni, i preconcetti, le paure. E ci aiuta a costruire barriere che proteggano senza escludere. Difese sane, che non feriscano.
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Un Futuro Senza Muri
Sogno un mondo in cui la diversità non sia una minaccia. In cui ci si possa sedere serenamente a tavola con una vicina senegalese, marocchina, cinese, senza sentirsi a disagio. E in cui anche loro possano sentirsi accolte nelle nostre case, come parte di una sola umanità.
Non capisco il classismo, eppure ne vedo le tracce ovunque. L’essere umano tende ad ammirare la forza, la bellezza, l’intelligenza. Ma chi è fragile, chi non risponde ai canoni, spesso viene scartato. Dovremmo imparare a guardare oltre: vedere l’invisibile, abbracciare l’imperfetto.
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Un Viaggio Anche Personale
Forse è per questo che sono diventata mediatrice linguistico-culturale, linguista, psicologa e pedagogista. In ogni ambito cerco di coltivare la mia umanità. Perché anch’io ho i miei pregiudizi. Anch’io ho le mie paure. A volte mi sento meccanica, disconnessa.
Ma voglio credere che si possa migliorare, un passo alla volta. Come scrive Rumi:
“La paura è come una paletta che tiene chiusa la porta. Prendila e buttala via. Apri la porta ed esci.
Non lasciare che la chiave della paura ti chiuda dentro. Apri la porta, esci e guarda il mondo fuori.”
Forse è proprio questo il nostro compito: imparare ad aprire le porte, una dopo l’altra, e finalmente vedere.