Un’ anta dell’ armadio di Loreta Lomuscio, oggi una donna di circa 35 anni, sposata con un medico taorminese e abitante a Fiumefreddo, è riservata a un guardaroba tutto speciale. Sta attenta, la donna, a non far prendere troppa aria, e neanche luce, a quei capi, ma sa già che a poco a poco quegli abiti si andranno a deteriorare perché sono fatti con la pasta.
Per la precisione con tantissimi tipi di pasta, dai maccheroncini alle sigarette, alle farfalle, ai bucatini. Una vera vocazione, la sua. Che l’ ha portata ad accarezzare il sogno di diventare stilista di un insolito genere che magari avrebbe perfezionato, cercando sponsor e nuovi materiali. Si era fatta conoscere, in giro, fino ad approdare a Taormina, almeno diciotto anni fa, e poi anche a Giardini, dove aveva partecipato, da stilista, ad alcuni defilé, riscuotendo un grande successo. Era pronta a continuare, ma prima ha voluto seguire il consiglio di chi se ne intendeva più di lei. «Ho registrato il brevetto», ricorda Loreta, «proprio perché quell’ idea degli abiti confezionati con la pasta, rimanesse la “mia” idea». Sono passati tantissimi anni e anche rabbia è svanita. Racconta come dal nulla realizzava abiti da sposa, gilet, vestiti da sera, colorati con le bombolette a gas. «Per un abito ci volevano quattro o cinque chili di pasta, che venivano assemblati con il filo da pesca».
Non sapeva cosa sarebbe venuto fuori perché non disegnava i modelli. Dava solo voce al suo estro improvviso e, per non lasciarlo sfuggire, si metteva subito all’ opera a qualunque ora del giorno o della notte. Prova dopo prova, Loreta si perfeziona, scegliendo una marca di pasta che risulta la migliore, quella più «infrangibile» e che resiste più delle altre all’ usura. Per confezionare i vestiti andava al supermercato e riempiva il carrello fino l’ inverosimile. Era la curiosità delle massaie che si chiedevano che cosa facesse con tutta quella pasta la ragazzina appena diciottenne che frequentava ancora l’ istituto d’ arte. Lei non si curava degli sguardi indiscreti. Tornava a casa, con i pacchi di bucatini e anelletti, e si metteva al lavoro. Quanto tempo impiegava per realizzare un vestito? Una settimana appena. I suoi erano capi veri e propri, di grande effetto, a cui Loreta accompagnava anche gli accessori: scarpe, borsette, orecchini e anche bouquet se si trattava di abiti da matrimonio. Ormai curava i particolari, era diventata una vera professionista, al punto che cominciava a farsi conoscere nel campo della moda locale.
Un bel giorno, però, mentre seguiva una trasmissione in tv, vide il «suo» vestito che reclamizzava un marchio di pasta. «Non credevo ai mie occhi – racconta Loreta – perché era stata io, alcuni mesi prima, a parlare con i dirigenti di quel pastificio, proponendomi come stilista». La risposta però non arrivò mai. «Mi sono vista rubare – spiega – le mie creazioni». Ma Loreta non si diede pace e ricorse all’ avvocato. Tra carte bollate, denunce e udienze, venne a sapere che il brevetto non era mai stato registrato alla Camera di commercio di Roma. Che cosa era successo? Non se lo sa spiegare Loreta che però un dubbio ce l’ ha: «Evidentemente qualcuno troppo in alto avrà fatto sparire tutto il carteggio». Si rassegna la ragazza con il pallino della moda. La sua è rimasta una favola, senza lieto fine. Non ha più voglia di continuare. Potrebbe ritornare a pensare ai vestiti, ma, dice, «non sarebbe più un’ originalità». Le restano quegli abiti nell’ armadio che vorrebbe preservare dal tempo, anche se sa che a poco a poco si sfalderanno. E allora sarà il ricordo a tenere viva la sua memoria e un album con le foto in cui è ritratta con i suoi abiti che sembrano veri e invece sono fatti di pasta. Ma nessuno, a prima vista, ci crederebbe.