di Isabella Landi (educatrice Servizio Adolescenti in Difficoltà – Comune di Milano) Associazione Amiche di ABCD.
La violenza sessuale agita da minori e giovani: esperienze di trattamento e ipotesi di prevenzione per la promozione di una prassi della nonviolenza nelle relazioni di genere.
Estratto dall’intervento al convegno ”Non lo faccio più” coordinato da Cristina Obber, autrice dell’omonimo libro e organizzato da Donne in Rete. 25 ottobre 2012, Palazzo Isimbardi Provincia di Milano.
I ragazzi che incontreremo nelle scuole con il progetto di prevenzione ideato da Cristina “si sentono lontani” da quelli che sono stati denunciati e condannati per atti di violenza. Agiscono un meccanismo di difesa da chi è stato ritenuto colpevole e quindi punito due volte: con la pena e con la stigma che lo allontana dal resto della società.
Fortunatamente in Italia, per quanto riguarda i minori, prevale la considerazione riparativa del processo penale; significa che i ragazzi e le ragazze autori di reato intraprendono percorsi rieducativi individualizzati, finalizzati alla rielaborazione dello stesso e all’acquisizione di responsabilità. Sono previste azioni di mediazione penale (ossia l’incontro con la vittima ed il suo punto di vista), attività di utilità sociale (rendersi utili tramite il volontariato), accompagnamento di assistenti sociali ed educatori specializzati.
Dentro la scuola e dentro il carcere, i ragazzi “sono più vicini” di quanto possiamo immaginare: gli atti di violenza sono trasversali alle classi sociali ed agli ambienti di provenienza; in prevalenza vengono agiti nella dimensione del “branco predatorio” da giovani maschi per il resto “normali” nei confronti di loro coetanee, spesso conosciute e sono favoriti da assunzione di sostanze disinibitorie, quali alcool o stupefacenti, che riducono le soglie di vigilanza e di controllo.
All’inconsapevolezza degli abusanti e delle vittime fa riscontro l’incapacità del mondo adulto di prendere atto di quanto accade e di metterci parola. Di fronte a differenze apparentemente inconciliabili, alla mancanza di alternative agli ormai inefficaci “ Si deve” – “ So io cosa va bene per te”, avanza la tentazione di arrendersi e lasciarli a sé stessi.
Il frutto della “sottrazione relazionale” è una società pedofobica, che amplia la considerazione dei giovani come “fetta di mercato” mentre li disconosce come portatori di dissenso, al punto tale da averne paura, anche fisicamente.
E proprio questi giovani, oggi più che mai, chiedono una presenza adulta che li aiuti a restituire senso agli avvenimenti che si affastellano dentro e fuori di loro e a reinterpretare i messaggi ambivalenti della cultura mediatica e popolare.
Come ci insegnano le neuroscienze, il cervello degli adolescenti non funziona come quello degli adulti: l’incapacità di prevedere le conseguenze dei propri atti, la difficoltà di controllare impulsi ed emozioni, la propensione al rischio, non sono “difetti”, ma caratteristiche dell’età, i cui compito evolutivo consiste nello sviluppo del pensiero ipotetico e della capacità di giudizio personale.
Così occorre apprendere “come si fa” ad aumentare il grado di consapevolezza di sé – anche nella differenza tra i sessi, che non è solo una caratteristica biologica, ma una complessa costruzione culturale; ad assumere atteggiamenti critici nei confronti di esperienza potenzialmente negative; ad aumentare le proprie competenze espressive e comunicative.
Ecco il senso di rivolgersi ai ragazzi e alle ragazzi su “argomenti caldi”, senza ipocrisie e pregiudizi, per avviare un dialogo a partire da loro. Non ci si avvicina per ammaestrare, indottrinare, criticare, ma per aprire un confronto autentico sulle possibilità dell’incontro fra i generi come terreno di scambio e di arricchimento. E lo si fa a partire dalla propria esperienza: come si è usciti dalla cultura della violenza diffusa, si è imparato a rispettare sé stessi e gli altri, si è capaci di governare il conflitto senza distruggere o annullarsi… o come si è ancora in cammino.
“Sapere cosa sarà dopo può aiutare a dire no” questo è lo spirito con cui sono state raccolte le testimonianze presenti nel libro. La capacità di scelta consapevole si nutre della dimensione cognitiva, di quella emotiva, di quella motivazionale. Per imparare dall’esperienza dell’altro occorre che quanto viene detto sappia toccare, provocare risonanze, suscitare empatia. E perché la parola diventi viva occorre che ascolta sappia fare la differenza tra i propri bisogni e le richieste esterne, che vengano dal gruppo di riferimento, dalle pressioni sociali, dalla cultura diffusa, ma anche dal mondo degli adulti e dai propri genitori. Se vogliamo che i nostri figli dicano “No” al branco, dobbiamo permettergli di dire “non sono d’accordo” anche a noi.