Io venni in luogo d’ogni luce muto
che mugghia
come fa mar per tempesta
se da contrari venti è
combattuto
(liberamente tratto dalla leggenda della dama Bianca del castello di Duino)
Io venni in luogo d’ogni luce muto
che mugghia
come fa mar per tempesta
se da contrari venti è
combattuto
Dante Alighieri (Inferno V, 28-30)
XIII secolo, feudo ora Duino
«Mia signora, come vi sentite stamane?» mi chiede la mia cameriera, legando i pesanti tendaggi di velluto verde muschio, per far entrare la luce del giorno e l’aria frizzante che profuma di mare.
«Va tutto bene, Maria». Dal modo in cui mi scruta, dubito che mi stia credendo, ma non ritengo di doverle raccontare i miei incubi.
«Vostro marito e mio Signore è appena tornato. Volete indossare il vestito blu, mia Signora?»
«Sì..» e mi ritrovo a pensare come affrontarlo. I suoi cambiamenti d’umore sono ormai incontrollabili.
«Maria, puoi andare, di’ al mio Signore che sarò da lui tra poco» e così la congedo. Qualche istante dopo che lei è uscita sento la porta riaprirsi.
«Esterina, lui è tornato! Siete in pericolo…».
«Non avreste dovuto entrare nella mia stanza, Guglielmo, vi rendete conto che qualcuno potrebbe vedervi e farsi strane idee… Siete impazzito?»
«Lo sapete come la penso al riguardo e, se voi me lo aveste permesso, io lo avrei già sfidato a duello…».
«State perdendo del tutto la ragione! Lui è il maestro d’armi di Federico II, quale pensate potrebbe essere l’esito del vostro duello?»
«Sciocchezze! Io e Federico ci siamo allenati insieme tante volte, non ve lo dimenticate. Voi… tu sai bene quello che provo per te, e conosci il motivo del vostro matrimonio! Io posso darti l’amore che non hai mai ricevuto».
Quanto vorrei aver incontrato prima Guglielmo, di suo cugino Federico, sono due uomini così diversi, e forse avrei convinto mio padre e lui avrebbe disposto diversamente prima di morire. Ora che si è infuriato, il suo linguaggio è ancora più intimo. Vorrei poter trovare conforto tra le sue braccia, ma non è questo il mio destino.
«Ne abbiamo già parlato, io… preferisco una vita insieme a lui che vedervi morto!».
Mi sono esposta anch’io, adesso, gli sto dando quella confidenza che non ho mai avuto nemmeno con mio marito. Con passo deciso Guglielmo mi si avvicina e mi cinge le spalle, il mio cuore accelera per l’emozione e mi sento avvampare. I suoi occhi hanno il colore di un cielo terso in una giornata estiva e mi stanno trafiggendo l’anima. Il suo viso è così vicino al mio che il suo fiato riscalda le mie gote, mi afferra con entrambe le mani la testa, quasi rabbioso.
«Quanto poco mi basterebbe per baciare le tue morbide labbra…».
Quanto vorrei lasciarlo fare, da quanto desidero assaggiare il sapore della sua bocca, ma non mi è permesso godere di questi momenti.
«Ma non lo farai, ti prego di non farlo, non potrei accettarlo» dico io e mi avvicino ancora di più, fino ad appoggiare la mia guancia sulla sua, ruvida e calda. Quel contatto mi inebria i sensi e vorrei poter lasciare le sue mani sfiorare ogni parte del mio corpo. Mi discosto di scatto, prima di compiere un’imprudenza.
«Ora vai, devo scendere e incontrarlo». I suoi occhi mi squarciano il cuore e quando finalmente esce, chiudendo la porta, mi appoggio a essa per riprendermi.
«Marito mio, mio Signore» e mi avvicino a lui facendo un inchino di saluto. Mi guarda di sfuggita e fissando fuori dalla finestra la vegetazione aggrappata alla roccia a strapiombo sul mare, mi fa cenno di sedermi dinanzi a lui.
«Voi siete una dama, Esterina da Portole, che molti mi invidiano. Io avevo bisogno della vostra dote per far carriera. Vostro padre è stato lungimirante. Io ora sono il maestro d’armi di Federico II e voi la castellana di questa dimora arroccata sulla roccia carsica, la Signora del feudo… Voi sapete che io sono molto impegnato e questo luogo mi va stretto». Il tono della sua voce è pacato, si gira e i suoi occhi sono persi nel vuoto. Fa una lunga pausa e solo allora, pone lo sguardo su di me. Scatta in piedi e con gli occhi iniettati di sangue mi rivolge parole indecorose. Mi si sento gelare, non comprendo quale sia la mia colpa. Ma la gelosia gli rode l’anima.
«Io sono Federico da Ritisperga, un uomo importante, e voi osate mettermi in ridicolo! Da oggi non potrete più lasciare il castello. Sarete segregata tra queste mura di pietra e i soldati di guardia al ponte levatoio hanno già l’ordine di non farvi passare».
Non oso chiedere il motivo, né contraddirlo in alcun modo: peggiorerei la sua collera.
<<continua>>