Un lacchè in livrea aprì la portiera della vettura; Gavin, rimesso a posto il cilindro, si affrettò a lasciare quell’odioso e scomodo abitacolo, pur sapendo che di lì a poco vi avrebbe dovuto risalire.
Gli venne incontro un uomo vestito con abiti semplici e un sorriso sincero sul volto florido.
«Quale felicità il vostro arrivo, mio caro Visconte! Sono il Principe».
Gavin accennò un breve inchino, ma subito sua grazia gli strinse la mano amichevolmente.
«Perdonatemi di avervi ricevuto in modo così frettoloso e senza troppe cerimonie, ma purtroppo sono stato chiamato d’urgenza da una delle mie fattorie e devo recarmi di gran fretta lì per verificare il problema».
Il Principe, dopo l’ennesima delusione politica, ancora memore del suo esilio volontario in Toscana e ancor di più di quello forzato nelle prigioni di Pantelleria e Termini Imerese, aveva deciso di dedicare il suo tempo alla coltura di vigne e all’intrattenimento di ospiti facoltosi.
Il padrino di Gavin, lord Bentik, gli aveva raccontato tutte le vicissitudini dell’uomo, dichiarandosene amico intimo, soprattutto quando con il suo intervento lo aveva fatto liberare da una prigionia che avrebbe potuto ucciderlo.
«Spero che avrete il piacere di accompagnarmi domani nella mia tenuta di Casteldaccia, dove si trovano le cantine del miglior vino siciliano». Continuò con orgoglio.
«Ne sarei onorato, sua grazia, ma temo di dover rifiutare, poiché intendo far ritorno in patria domani stesso».
«Sciocchezze! Vi fermerete tutto il tempo necessario per conoscere le mie vigne e per festeggiare la nuova vendemmia: sarete mio ospite. Ecco Giuseppe, vi farà lui gli onori di casa!».
Due giovani eleganti, secondo la moda parigina, sopraggiungevano dall’accesso centrale. Uno di loro era il figlio del principe, che guardò il padre con occhio critico. Il genitore non gli badò e rivolgendogli un altro saluto si affrettò a montare su uno stallone che aspettava irrequieto poco più in là.
L’animale, seguito da altri suoi simili, partì al galoppo; uno di essi scartò di lato, imbizzarrito, alzandosi sulle zampe anteriori.
Quel movimento attirò l’attenzione di Gavin, che trovava fastidiosi e tediosi i due nobiluomini, capaci solo di vani discorsi.
Un bimbo, seguito da altri rumorosi coetanie, di gran corsa intendeva raggirare l’animale imbizzarrito, ma l’asfalto pieno di piccole buche, lo fece miseramente cadere.
Il cavallo proseguì nel suo movimento, indifferente al piccolo corpicino, ora raggomitolato, sotto le sue imponenti zampe. Gavin non si prese la briga di pensare ma reagì all’istante, pur consapevole di essere troppo distante.
Il quadrupede, pur trattenuto dal cavaliere, tentò di ritornare al suolo.
Una fanciulla, sbucata dal nulla, tirò a se il piccolo, rotolandosi sull’asfalto terroso. Le zampe dell’animale atterrarono sul suolo, che d’impeto corse in avanti.
All’interno della corte, dopo alcuni istanti di silenzio, spezzati solo dal galoppare violento del cavallo, le voci tornarono a mulinare incessanti e rumorose.
Il visconte si precipitò a soccorrere la fanciulla e il bimbo, che per nulla spaventato dal pericolo scampato, sgusciò dalle braccia della donna e riprese la sua incosciente corsa.
«Miss? Vi sentite bene». Gavin senza attendere risposta la sollevò tra le braccia e la portò ai limiti della corte, dove erano dislocate delle panchine. Senza dare ascolto alle timide proteste della fanciulla, la fece sedere e poi si accovacciò ai suoi piedi, chiedendo, con rinnovata sollecitudine se stesse bene.
Guardandola per la prima volta in viso: lunghe ciglia nere celarono, con un movimento veloce, come lo spiegarsi delle ali di una farfalla, i grandi occhi, la cui iride ricordava l’indaco del mare che circondava l’isola antica e selvaggia che aveva visitato in lungo e largo. I capelli neri come le ombre erano stretti in una crocchia, che con la sua severità pronunciava l’ovale piccolo e perfetto del volto. Le labbra, ora strette e irritate, a forma di cuore, erano le più invitanti che avesse mai visto. Era un miscuglio di bellezza classica, ma anche esotica, per via della sua carnagione ambrata, ben diversa dal pallore mortale delle nobildonne. Non ebbe la forza né il coraggio per guardare cos’altro quella meravigliosa creatura cercasse di celare.
Lei tornò a guardarlo. Accusandolo con i suoi occhi blu.
«Signore, state oltrepassando i limiti della decenza, smettetela di fissarmi!»