L’alfabeto di Sanremo: vizi, mode e costumi
(da “La Gazzetta del mezzogiorno”, I puntata 10/2/2013; II puntata 12/2/2013)
Quello che segue è un “dizionario” non ufficiale dell’evento canoro più famoso, più detestato, più seguito, più malaugurato, più glamour, più tutto e il contrario di tutto dell’Italia dal 1951 a oggi. Segue un senso del tutto personale, basato su ricordi – alcuni confusi altri molto precisi – e miti infantili di papaveri, papere, bolle e trote blu, che nulla hanno a che vedere con le storie colte del Festival e i racconti dei musicologi.
Di Calefato e Calefato: “Piccolo dizionario dei segni del Festival di Sanremo”. Dirige il maestro Cinico Angelini. Canta Cocky Mazzetti.
A – Accoppiate di cantanti. Fu la formula in uso dal 1953 fino al 1971 in base alla quale la stessa canzone in gara era affidata a due voci diverse. Il segno che vi leggo è quello di una operazione molto colta e fruttuosa, di una “traduzione” all’interno della stessa lingua tra stili e vocalità diverse. Questa traduzione giovò enormemente alla nascita di nuovi cantanti e alla maturazione del genere “canzonetta italiana”, che tanto ha contribuito all’identità nazionale, alla storia linguistica, della comunicazione e del costume nel nostro paese. Tra le accoppiate più famose: Domenico Modugno/Claudio Villa; Louis Armstrong/Lara Saint Paul; Luigi Tenco/Dalida.
B – Braccia di Modugno. E’ il segno per eccellenza del Festival di Sanremo: Domenico Modugno che allarga le braccia durante l’esibizione di Nel blu dipinto di blu, vincitrice nel 1958. Modugno cantava con la voce e col corpo: le braccia, la gamba che seguiva il ritmo, il sudore durante le esibizioni. “Volare, oh oh/ cantare, oh oh oh oh” divennero i versi italiani più noti nel mondo dopo “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, e l’Italia volò, appassionata come Modugno, dopo gli anni difficili della ricostruzione.
C – Casinò. E’ il luogo in cui il Festival si è svolto sino al 1976, quando si trasferì al teatro Ariston dove si tiene tutt’ora. Sanremo è una delle poche città italiane che hanno un casinò: certo questo può sembrare un dettaglio insignificante, nell’epoca dei saloni del bingo, dei poker online, delle slot-machine da bar e del lotto telematico. Nei decenni d’oro del Festival, invece, il Casinò rappresentava l’immagine-simbolo, reale o presunta, dell’alta borghesia del Nord Italia che trascorreva il suo tempo libero nel Salone delle feste in tenute da gran sera, magari prima di passare alla roulette o allo chemin-de-fer. Era il pubblico-modello di un’Italia che non esiste più, di uno spettacolo immaginato come una grande première, di un’eleganza borghese con cui l’Italia popolare di allora si confrontava e che fu spazzata poi via dallo spettatore-massa della neotelevisione.
D – Direttori d’orchestra. Cinico Angelini fu il primo, poi vennero tanti altri nomi celebri, che dirigendo al Festival suggellarono la loro fama nel mondo della canzone e della musica in tv. Alcuni di loro erano anche autori: ricordiamo i grandi Bruno Canfora, Armando Trovajoli, Pino Calvi. Tra la fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80 il ruolo dell’orchestra venne meno, in quanto i cantanti si esibivano in playback, in barba alla tradizione più radicata dell’esecuzione dal vivo. Fortunatamente questa è stata ripresa dopo quel periodo buio, e oggi l’orchestra sinfonica di Sanremo è l’orchestra ufficiale del Festival, sul cui podio si alternano bacchette autorevoli.
E – Eurovisione. Sanremo fu trasmessa per radio dal 1951 al 1954: sembra incredibile scindere il Festival dalla televisione di stato, eppure prima di allora la tv non esisteva in Italia, ed erano solo note quelle che si levavano nelle sere di febbraio dalle case degli italiani. Le immagini i nostri padri e nonni potevano solo “vederle” attraverso le parole del presentatore radiofonico per eccellenza Nunzio Filogamo. Quando arrivarono le telecamere, fu una festa, e ancor più sconvolgente fu la svolta del 1958, con la prima diretta in Eurovisione. Segno forte indimenticato di quelle trasmissioni: il logo RAI circondato di stelle con in sottofondo le prime battute del Te Deum di Marc-Antoine Charpentier.
F – Fiori della Riviera. Decorano da sempre il palcoscenico del Festival, sono il segno della primavera alle porte, del Mediterraneo, del sole italiano. I fiori sono entrati spesso nei testi delle canzoni sanremesi: Grazie dei fiori è il titolo della prima canzone vincitrice, cantata da Nilla Pizzi; ma ci sono state anche rose nel buio, una margherita, in un fiore, io tu e le rose, per non parlare dell’edera che avvince e dell’erba del ragazzo della via Gluck.
G – Gigliola Cinquetti. Aveva 16 anni nel 1964 quando vinse con Non ho l’età (per amarti). Non potrebbe partecipare all’edizione 2013, nella quale i cantanti devono essere necessariamente maggiorenni. Arrivò con lei una ventata solo apparentemente “gorettiana” (da Santa Maria Goretti), in realtà molto più spregiudicata di quanto si potesse credere. Certo, era l’anti-Mina, la brava ragazza con la gonna sotto il ginocchio e gli occhi bassi. Ma quanta seduzione in quella ritrosia! La giovane Cinquetti seppe per fortuna giocarci con intelligenza e senza bigottismi né civetterie sopra le righe.
H –Lettera “muta” dell’alfabeto italiano. La H entra nel nome Deborah della canzone che nel 1968 Fausto Leali e Wilson Picket portarono al successo con le loro voci possenti. Da allora il nome è entrato nell’uso comune dei battesimi italici, con l’h spesso al posto sbagliato (Deborha), o del tutto assente (Debora). Un piccolo segno dell’ingresso dell’inglese nella lingua italiana, alle origini di un fenomeno oggi incontenibile.
I – Italiano. Il Festival è dedicato per statuto alla “canzone italiana” e ha contribuito in modo essenziale alla diffusione della lingua unitaria nel nostro paese. Anche i cantanti stranieri, che furono introdotti nelle coppie nelle edizioni 1964 e 1965, dovevano necessariamente esibirsi nella nostra lingua. Ricordo le storpiature adorabili di Louis Armstrong che canta “Mi va di cantariii staserrra con tew”. Modi di dire celebri, neologismi diventati espressioni correnti, punte di alta poesia, costrutti bislacchi e d’avanguardia, sono nati nei testi di Sanremo e fanno tuttora ricca e viva la lingua dove il bel sì suona. Qualche esempio, fatto per caso e per affetto: “Ciao ciao bambina”; “Pappare i papaveri come si fa?”; “Dice ch’era un bell’uomo e veniva, veniva dal mare”; “Perdere l’amore quando si fa sera, quando tra i capelli un po’ di argento li colora”.
J – Jazz. La canzone italiana non è stata solo cuore e melodia. Malgrado la sua vocazione prevalentemente tradizionalista, proprio il Festival è stato il luogo in cui le influenze del jazz sono arrivate attraverso “segni” forti. A cominciare dal grande Armstrong, che vi si esibì nel 1968. Ma va ricordata anche Jula de Palma, ottima cantante jazz italiana, che scatenò uno scandalo televisivo nell’edizione del 1959 per la sua esibizione troppo “sentita” della canzone Tua. Sono le donne ad avere la meglio a Sanremo in questo genere: negli ultimi anni, grandi soliste italiane come Rossana Casale, Nicky Nicolai, Chiara Civello, sono salite con perizia sul palcoscenico dell’Ariston.
L – Libretti. Li comprava ogni anno mio padre appena uscivano in edicola – solo qualche giorno prima del Festival perché le canzoni erano tenute in rigoroso segreto fino all’inizio della manifestazione – e li portava a casa dove li attendevo quasi come l’uovo di Pasqua o i regali di Babbo Natale. Erano i libretti tascabili delle Messaggerie Musicali, pubblicati dalla Campi editore di Foligno, che raccoglievano i testi delle canzoni in gara. Così le potevamo cantare da subito insieme ai nostri beniamini sul palco: Modugno per mia madre, Nilla Pizzi e poi Milva per mio padre; io ero indecisa sui cantanti, badavo più ai testi e alle musiche che ai personaggi. Seguendo le parole sui libretti e sullo schermo, imparai anche a leggere prestissimo.
M – Moda. La moda ha fatto il Festival o il Festival ha fatto la moda? Entrambe le cose. C’è una moda introdotta dalla tradizione sanremese che si apre con gli abiti New Look delle prime trionfatrici – Nilla Pizzi, Wilma De Angelis, Katyna Ranieri – un po’ maggiorate un po’ madri di famiglia, costrette dalla censura televisiva del codice di Filiberto Guala a castigare le scollature. C’è la moda delle giacche bianche di Modugno, delle camicie a fiori dei gruppi pop anni ’70, dei cappelli estrosi di Rino Gaetano e di Zucchero. A partire dagli anni ’80 la moda entra di prepotenza, il look spesso prevale sulle canzoni, lo sfoggio di top-model e arzigogolati capi di haute couture confonde i ruoli tra cantanti, presentatori e ospiti. Spesso si rasenta il Kitsch, con punte deteriori tra cui meritano menzione gli abiti di Edwige Fenech nel 1991 e il tatuaggio inguinale di Belen Rodriguez nel 2012. Eccezione di gran classe, Anna Oxa, che nel 1994, messo in soffitta il suo periodo punk, inaugurò la sua epoca di signora dello stile sanremese.
O – Omosessualità. Il rapporto tra Sanremo e l’amore non è sempre rose e fiori: a farne le spese è stato storicamente l’amore omosessuale, ridotto a patologia psicologica nella contestatissima canzone di Povia del 2009, Luca era gay, o dileggiato lo scorso anno in una gag del duo I soliti idioti. Eppure ci sono state canzoni a contenuto omosessuale esplicito, rimaste in ombra, come Sulla porta di Federico Salvatore del 1996, o la più famosa Il mio amico di Anna Tatangelo del 2008. Sanremo, la televisione italiana e in generale il mondo dello spettacolo sono poi responsabili dell’ostracismo di cui soffrì soprattutto negli anni ’60 un autore di grande valore come Umberto Bindi, che compose per Sanremo la musica di E’ vero, cantata da Mina nel 1960, di Non mi dire chi sei, cantata da lui stesso con Miranda Martino nel 1961. Bindi – curiosità speciale – aveva composto I trulli di Alberobello che fu portata a Sanremo nel 1958 dal “pizzaiolo” Aurelio Fierro in coppia con il preistorico Duo Fasano.
P – Pallini. C’è qui da introdurre un’immagine molto imbarazzante per Mina, che in una delle serate dell’edizione 1961 venne costretta dalla sua casa discografica a indossare un assurdo abito con gonna a palloncino e tessuto stampato a grandi pois blu. Il vestito avrebbe dovuto fare da pendant alla sua canzone, cantata in coppia con Jenny Luna: Le mille bolle blu, autori Pallavicini e Carlo Alberto Rossi. Il successo fu immediato, la canzone era un inno all’allegria e lei la cantava virtuosamente spensierata, premettendo al titolo il suono egressivo “Blll”, in cui un movimento delle dita sulle labbra modulava la fuoriuscita dell’aria. Su quel vestito venne fortunatamente steso un velo pietoso.
Q – Quattro + Quattro di Nora Orlandi. Furono i coristi ufficiali del Festival dal 1959 e per tutti i suoi anni ruggenti. Presenza discreta, ma essenziale, la loro. Per il Festival sono stati imprescindibili, come i fiori della Riviera, gli ammiccamenti dei direttori d’orchestra e gli acuti di Albano.
S – Saltello. E’ quello di Joe Sentieri, che nel cantare usava anche lui molto la corporeità, oltre che la voce. Il piccolo salto all’indietro alla fine di ogni canzone divenne un segno di riconoscimento, un gesto che tutti si attendevano, tanto che Sentieri venne chiamato proprio “il cantante del saltello”. Un salto come rischio ma anche come tentativo di tenersi in piedi nel mondo del successo musicale, che divenne sempre più spietato e lo lasciò nell’ombra.
T – Tramontana. Città sul Mar Ligure, Sanremo ben conosce questo freddo vento dal Nord, che venne celebrato nel 1968 dalla canzone omonima dell’estroverso Antoine. Scanzonato e un po’ hippy, Antoine usava il senso metaforico dell’espressione “perdere la tramontana”. Dopo le lamentele dell’anno precedente, in cui cantava l’ancor valida parabola “Se sei bello ti tirano le pietre/ Se sei brutto ti tirano le pietre”, con la tramontana introdusse invece un po’ l’aria corsara del ’68. E dopo le canzoni, per Antoine venne la vela, cui tutt’ora si dedica in giro per il mondo, con la perizia di chi la tramontana la governa bene da tempo.
U – Urlatori. Che tipo di segno rappresentarono le urla di Celentano, Mina, Tony Dallara nel tempio della melodia italiana? Non fu certo il Festival a inventarli, gli “urlatori”, ispirati dal rock e dal jazz d’Oltreoceano: le loro musiche scatenate e i loro testi agguerriti c’erano già in Italia sul finire degli anni ’50, mentre anche da noi nascevano i “giovani” come categoria sociale e si moltiplicavano i juke-box nei bar e nelle spiagge. Entrarono a Sanremo, e così non bastò più un solo bacio a fare una canzone, ma ce ne vollero 24mila; e anche se l’innamorata era un’inguaribile Romantica, questo andava gridato a gran voce. Tuttavia, le urla ebbero maggior affermazione fuori del Festival, ed è emblematico come la canzone Nessuno che a Sanremo nel 1959 fu timidamente cantata da Betty Curtis e Wilma de Angelis, venne invece portata al grande successo da Mina in una esplosiva esibizione al Musichiere.
V- Vallette. Era il modo maschilista di definire in televisione, e non solo a Sanremo, le donne che coadiuvavano il presentatore, quasi sempre uomo sino a oggi. Le vallette hanno avuto una funzione “ingentilente” nei primi anni, “decorativa” dopo. Tra le prime a far parte di questa categoria vi furono donne di cultura come Enza Sampò, conduttrice televisiva che ha fatto la storia della RAI; Maria Teresa Ruta, zia dell’omonima contemporanea; Edy Campagnoli, la “valletta muta” che fu la prima a sposare un calciatore di nome Buffon (Lorenzo). Nel ruolo vi furono attrici indimenticate come Giuliana Lojodice e Sylva Koscina. E vi fu la valletta per antonomasia Sabina Ciuffini, accanto a Mike Bongiorno come nei telequiz, con la quale però il ruolo venne un po’ rivisto, dato che l’Italia cominciò a capire che le donne sanno parlare e perfino pensare. Recenti edizioni costellate di ex-veline hanno instillato il dubbio contrario, mentre quest’anno, Luciana Littizzetto si scatenerà sicuramente sul ruolo della “valletta”, giocando con il suo sarcasmo.
Z – Zebra a pois. E’ il titolo di una bizzarra canzone scritta da Lelio Luttazzi (con Marcello Ciorciolini e Dino Verde) e cantata anch’essa da Mina, che però non è mai stata una canzone del Festival. Al termine di questo piccolo Dizionario, questa ultima voce vuole essere il segno di tutto ciò che è stato ed è l’”anti-Festival”: le contestazioni, quelli che non vi parteciparono mai per principio, quelli che avevano detto “mai a Sanremo” e poi ci sono andati, quelli che ne sono stati vittime, quello che ci ha lasciato la vita a 24 anni con un colpo alla testa, quelli che non vedono il Festival, non ne parlano e se ne infischiano. A tutti, la dedica di questa canzone il cui testo sfida la natura con la forza delle parole: “Beh, che c’è? A pois, a pois, a pois!”