di Antonio Turi
La vicenda di Pistorius, con l’omicidio che ne ha segnato la definitiva trasformazione da eroe greco in lotta contro i suoi stessi limiti a figura tragica che nella sua caduta tutto e tutti travolge, ha avuto in queste ore un tale peso emotivo da impedire ancora una riflessione fredda, in grado di evidenziarne il significato all’interno del dibattito sui casi di cosiddetto “femminicidio”, parola che trovo errata ma che userò per comodità di dibattito. È evidente che ogni qual volta si analizzi un caso singolo, ci si scontra con la difficoltà a volerne trarre degli insegnamenti generali. Ma è ancora più chiaro che la terribile fine di Reeva qualche domanda invita a porla, soprattutto domande relative alla figura di lei, della donna, più che di Pistorius.
Parlando di “femminicidio”, ci si è sempre domandati perché le donne restano al fianco di uomini che usano loro violenza. Anche quando questa violenza arriva alla fine di episodi di stalking, di solito emerge che già prima della rottura non erano rose e fiori. E allora, perché? Perché continuare una relazione segnata da lividi e pestaggi?
Le risposte sono sempre state molte e di diverso tipo. La più gettonata è sempre quella che fa riferimento a una subalternità economica, spesso accompagnata dalla presenza di figli. Poi c’è la subalternità culturale, e per subalternità culturale si intende non al maschio ma una più generale mancanza di cultura capace di valorizzare il proprio sé.
Epperò poi arriva Pistorius, anzi, arriva Reeva e butta tutto all’aria. Perché nel caso di Reeva non si può certo parlare di subalternità economica, meno che mai di subalternità culturale. Anzi, esattamente il contrario. Reeva aveva tutto per essere e soprattutto per sentirsi superiore al suo compagno. Aveva una vita di successo, soldi, considerazione sociale, vita di relazione tanto ampia da poter prendere tutto quello che voleva, anche in fatto di uomini. Non solo, era anche una campionessa dei diritti delle donne, Reeva, una che si batteva proprio per combattere il “femminicidio”. Eppure, proprio questa donna non si schiodava dal fianco di un compagno che, da quanto si apprende, non era nuovo a episodi di violenza. E allora? Come la mettiamo?
Confesso di essere spiazzato quanto mai prima. E mi domando, ma anche vi domando? Non è che stiamo sbagliando tutto? E che proprio l’intera discussione sul “femminicidio”, anche la mia, che pur negando l’esistenza di un fenomeno definibile con questo nome resta comunque all’interno di determinati parametri di analisi, sia sbagliata? Non è che forse c’è qualcosa di determinante che ci sfugge e che sta alla base di tutte quelle parole che sentiamo dire, anche dalle vittime, e che, soprattutto, diciamo?
3 commenti
femminicidio è una parola orribile, però secondo me a questo punto serve a mettere a fuoco il fenomeno che altrimenti rischia di rimanere nell’indistinto mondo degli omicidi.
del resto non è l’unica categoria di delitti che di fatto ha richiesto un termine a se: ad esempio nel caso di uccisioni di bambini nessuno si sognerebbe di chiamarli “omicidi” ma vengono appunto chiamati “infanticidi” a rimarcare la precipua odiosità dell’azione rivolta ad esseri che certamente sono in una condizione di minoranza fisica rispetto all’assassino. esattamente come nel caso delle donne uccise per mano di compagni, mariti, fidanzati e spasimanti vari. è un confine fin troppo nitido per continuare a chiamarlo “omicidio” senza dargli invece il giusto orribile peso con questo orrendo neologismo che è “femminicidio”.
Per quanto riguarda questo caso in particolare, aspetterei di capire il peso avuto dalle sostanze stupefacenti che – stando a quando riportano i TG – sono state forse assunte dall’atleta.
Ma qualcosa già si può dire: donne, se un uomo geloso e potenzialmente violento assume sostanze dopanti, stupefacenti o alcol, state doppiamente attente, o meglio ancora, valutate l’ipotesi di condizionare la durata della relazione al fatto che lui cerchi aiuto!
Per favore, basta con la storia delle sostanze dopanti: è la stessa scusa con cui si “assolvevano” culturalmente gli uomini che nel secolo scorso e anche prima massacravano le mogli con l’aiuto dell’alcolismo. Era colpa dell’alcol o colpa di una cultura diffusa che li autorizzava a percuotere e ad uccidere?