Un’attrice di culto, Franca Rame. Il 18 luglio avrebbe compiuto 85 anni.
Un ricordo molto particolare, quello legato a Franca Rame. Non tanto e non solo per l’innata tendenza a proiettare sul palcoscenico vizi e virtù della contemporaneità, quanto per la particolare abilità di penetrare profondamente nell’anima del pubblico a cui si rivolgeva con i suoi spettacoli.
Un’attrice di culto, Franca Rame. Il 18 luglio avrebbe compiuto 85 anni. Chi non è più giovanissimo ricorderà certamente il grande impegno politico e sociale di cui erano permeati i suoi indimenticabili monologhi, piccole gocce di verità contrapposte alle ingiustizie, agli interrogativi irrisolti, alle discriminazioni sociali e alle carenze istituzionali.
Per il forte attivismo politico qualcuno l’aveva persino accostata alla figura di Dolores Ibàrrurri, pasionaria della guerra civile spagnola. Ma Franca Rame è stata soprattutto un’autorevolissima paladina dell’emancipazione femminile, al punto da fare della lotta per i diritti femminili una vera ragione di vita.
Ha parlato e combattuto per le donne, per tutte le donne. Se solo ne avesse avuto l’opportunità avrebbe certamente riempito i teatri di casalinghe, operaie, studentesse, ossia di quelle donne comuni a cui dedicava ogni suo sforzo artistico, intellettuale e fisico. Lo avrebbe fatto per infondere loro la forza di reagire, di combattere le emarginazioni e i soprusi, per risvegliare i quegli sguardi attenti anche il più piccolo barlume di orgoglio femminile.
E proprio alle donne sottovalutate, maltrattate, incomprese, violentate decise di dedicare il suo monologo più emblematico e tragico, Lo Stupro, scritto per il teatro nel 1975 ma successivamente (ed eccezionalmente) trasmesso anche dalla Rai su scala nazionale. Un chiaro segnale di progresso in quell’epoca segnata da un silenzio pressochè assoluto in merito alla violenza sessuale (basti ricordare infatti che solo nel 1979, con il documentario Processo per stupro, venne inaugurata la stagione dei dibattiti sul processo di criminalizzazione delle vittime nei tribunali nostrani).
Sul palcoscenico, dunque, Franca Rame ricorse a parole ponderate, sofferte, frutto – come affermò inizialmente – di una testimonianza letta su Quotidiano Donna.
La realtà era invece ben diversa. Quelle frasi intrise di concreta drammaticità esprimevano le sue stesse emozioni. Le erano sgorgate spontaneamente dal cuore in seguito a una dolorosa (e terribilmente odiosa) esperienza mai davvero dimenticata.
Mi sento male… nel senso che mi sento svenire… non solo per il dolore fisico in tutto il corpo, ma per lo schifo… per l’umiliazione… per le mille sputate che ho ricevuto nel cervello… per lo sperma che mi sento uscire. Appoggio la testa a un albero… mi fanno male anche i capelli… me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo la mano sulla faccia… è sporca di sangue. Alzo il collo della giacca.
Cammino… cammino non so per quanto tempo. Senza accorgermi, mi trovo davanti alla Questura.
Appoggiata al muro del palazzo di fronte, la sto a guardare per un bel pezzo. Penso a quello che dovrei affrontare se entrassi ora… Sento le loro domande. Vedo le loro facce… i loro mezzi sorrisi… Penso e ci ripenso… Poi mi decido…
Torno a casa… torno a casa… Li denuncerò domani
Franca Rame stava facendo ritorno a casa, quell’infausta sera. Era il 9 marzo del 1973 e Milano era ancora una città relativamente tranquilla. Lungo il tragitto venne però accostata da un furgone su cui venne caricata a forza per essere poi torturata e violenta da cinque neofascisti. Individui loschi, decisi a punirla in quanto donna per le sue idee politiche notoriamente in antitesi con le loro e in particolare per avere apertamente condiviso e sottoscritto la lettera aperta che nel 1971 L’Espresso pubblicò in merito al caso di Giuseppe Pinelli (il ferroviere anarchico deceduto nel 1969 dopo essere misteriosamente precipitato nel vuoto dagli uffici della Questura meneghina dove si trovava sotto interrogatorio).
I responsabili del crimine perpetrato ai danni della Rame svanirono nel nulla. Anni dopo, quando un pentito rivelò finalmente la loro identità, il reato era ormai caduto in prescrizione, per cui non vennero mai consegnati alla giustizia e rimasero impuniti.
La Rame avrebbe potuto tacere piegandosi ai richiami tradizionali e istituzionali imposti dalle consuetudini allora in auge. Invece decise di parlare. Di denunciare attraverso la sua arte le nefandezze di una società che si ostinava a non voler guardare in faccia la realtà in tutte le sue sfaccettature. Anche le più scomode. E a non voler comprendere appieno il dramma della violenza sulle donne.
Non si vergognò di uscire allo scoperto, prevaricando coraggiosamente le barriere culturali erette dal falso perbenismo e dall’eccessivo bigottismo politico di quegli anni.
Sotto la potente luce dei riflettori mise in piazza una tragedia umana immutata nel tempo, propria ancora oggi di tutte le donne che stanno soffrendo in silenzio e che nell’indifferenza generale stanno combattendo la loro battaglia per la libertà.