Siamo lontani dall’investire nelle donne come forza lavoro e come risorsa per un riscatto socio-economico del Paese.
Gli ultimi dati ci dicono che il gap gender nel mondo del lavoro si sta riducendo e questo purtroppo non tanto a causa di un maggior arruolamento delle donne come forza-lavoro, bensì perché la crisi, che ha colpito principalmente il settore edile, manifatturiero e finanziario, ha interessato molti lavoratori uomini e quindi il calo dell’occupazione femminile ha contribuito a ridurre il divario di genere.
Siamo quindi ancora lontani dall’investire nelle donne come forza lavoro e come risorsa per un riscatto socio-economico del Paese.
Anzi, oggi più che mai il rischio che le donne, molte delle quali addirittura laureate, specializzate e quindi preparate, si ritirino dal mondo lavorativo per assistere familiari (bambini e anziani) a causa della mancanza di sussidi sociali e/o si adattino a lavori precari unicamente per contribuire al sostentamento familiare e quindi in entrambi i casi senza possibilità di investire in loro stesse, è in aumento.
Le donne attive sul fronte lavorativo e con figli al di sotto dei tre anni, rappresentano il 51% della popolazione femminile, percentuale che sale al 54% con bambini dai sei ai quattordici anni.
Tutto ciò, se ci pensiamo bene, è semplicemente assurdo e controproducente: è come avere un potenziale inutilizzato e quindi che viene sprecato, trincerandosi dietro la fallace convinzione, a cui però ancora si continua a credere, che una donna debba stare a casa “per il bene dei figli” e che la massima aspettativa per una donna sia occuparsi dei bambini.
E se, invece, investissimo anche nelle donne? Cosa potremmo ottenere?
Proviamo a riflettere sulle possibili e potenziali implicazioni che avrebbe la partecipazione attiva delle donne nel mondo del lavoro, se e laddove vi sia disponibilità da parte delle stesse a dare il proprio contributo.
In primo luogo, come ha detto e scritto oramai da tempo Maurizio Ferrera, docente di Scienza Politica all’Università degli Studi di Milano, “l’Italia cresce poco o nulla, dal punto di vista economico come anche demografico, perché troppe donne stanno a casa”.
Infatti da un punto di vista economico, “una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro significa più occupati e dunque più PIL”, scrive Ferrera nel suo libro “Il Fattore D”. In riferimento alle stime di Goldman Sachs e OCSE, Ferrera sostiene che se l’occupazione femminile arrivasse ad equiparare quella maschile, passando dal 46% attuale al 70% degli uomini, il PIL aumenterebbe del 20%.
Già nell’oramai lontano 1999 in riferimento alla crisi giapponese, Kathy Matsui, ricercatrice di Goldman Sachs, sosteneva che la crisi economica è dovuta al fatto che non viene lasciato spazio alle donne.
Perché l’incremento dell’occupazione femminile dovrebbe portare ad una crescita economica? Per varie e diverse, oltre che ragionevoli, motivazioni.
In primo luogo, per ogni donna che esce di casa, si vengono a creare potenziali posti di lavoro per la cura della casa, dei figli ed eventualmente di anziani. Ferrera addirittura stima che per 100 donne lavoratrici, si verrebbero a creare 15 posti di lavoro.
Poi la maggiore implementazione della forza lavorativa femminile porterebbe ad un aumento delle entrate e anche ad una crescita economica, non solo perché aumenterebbe il numero dei contribuenti, ma anche perché implicherebbe l’arruolamento di cervelli e personalità che possono, in integrazione con quelle già attive, produrre più stimoli, risorse e quindi potenzialità di cambiamento. A conferma di ciò, troviamo varie testimonianze di aziende, come la Nike, che investendo nelle donne anche ai posti di comando, hanno registrato un incremento significativo del fatturato.
Un secondo stipendio familiare provoca inevitabilmente un aumento delle potenzialità economiche di una famiglia, maggiori possibilità di spendere e quindi un aumento dei consumi.
Maurizio Ferrera sostiene che un “moltiplicatore economico” è rappresentato dal “consumo rosa”, che si stima intorno all’80% e che nei paesi ad alta occupazione femminile ha registrato un aumento importante parallelamente alla crescita del lavoro femminile (“Fattore D”).
Infine la crescita dell’occupazione femminile determina un aumento della natalità: i Paesi ad alta occupazione femminile, come quelli Scandinavi, sono anche quelli che registrano un maggior tasso di natalità, mentre in Italia il tasso di natalità (di 1,3) si attesta ben al di sotto del valore medio di 2 figli per coppia di Gran Bretagna e Francia.
Oltre a fornire un contributo forte e necessario al recupero del Paese dalla crisi economica stagnante in cui ci troviamo, l’investimento delle donne nel mondo del lavoro contribuirebbe anche ad una maggiore serenità generale, sia delle donne stesse che delle coppie e dei figli.
Numerosi studi sembrano convergere alle stesse conclusioni: le donne lavoratrici risultano a medio e lungo termine più soddisfatte e felici delle casalinghe. Fra questi, riporto i risultati di una ricerca condotta dall’University of Carolina, da cui risulta che le donne siano più contente di lavorare che di stare a casa e che le donne impegnate sul fronte lavorativo (full-time o part-time) siano meno a rischio di sviluppare sintomi depressivi. Tutto ciò può essere verosimilmente attribuito al fatto che le donne lavoratrici, soprattutto se nelle messe nelle condizioni di poter svolgere un lavoro che piace, si sentono soddisfatte, realizzate e appagate, oltre al fatto che il lavoro potenzia l’autostima e l’auto-efficacia, quindi vissuti di sicurezza e forza personale.
La ricerca evidenzia come “il rischio di divorzio diminuisca di circa la metà quando le donne contribuiscono per il 50% al sostentamento della famiglia e i mariti svolgono la metà dei lavori di casa” (S. Sandberg, “Facciamoci avanti”). Infatti la parità di genere sembra essere correlata con relazioni di coppia più felici. Ciò può essere facilmente spiegabile sia con il fatto che vanno a ridursi alcuni potenziali motivi di conflittualità sia con l’aumento della soddisfazione percepita da parte di entrambi i partner, donne incluse.
Numerosi studi hanno dimostrato che i bambini non sono penalizzati dal fatto che la madre lavori, quando l’occupazione femminile è accettata e supportata dalla coppia e controbilanciata da un maggior coinvolgimento del marito nella gestione del carico domestico e familiare. Infatti se il lavoro costituisce una fonte di serenità, soddisfazione e tranquillità sia per la mamma che per la coppia e quindi contribuisce ad un buon clima familiare, questo non può che avere ripercussioni positivi anche sui figli.
Sia la serenità individuale che dei figli come anche la maggiore probabilità di mantenimento dei rapporti di coppia e quindi la riduzione del rischio di divorzi, costituiscono fattori che inevitabilmente finiscono per avere ricadute positive anche sull’economia del Paese, in quanto determinerebbero una riduzione dei costi della spesa pubblica per questioni di salute (psicofisica) e per pratiche legali e un minor impoverimento delle persone e delle famiglie, quindi maggiore potenziale economico a disposizione.
Se solo valutassimo questi aspetti, forse potremmo prendere coscienza del fatto che investire anche sulle donne porterebbe importanti e sostanziali benefici a tutti e riusciremmo a rompere barriere sociali che non hanno più ragione di esistere.