di Caterina Della Torre
…affinchè le stratificazioni temporali si tocchino e che il passato incontri il presente fino a superarlo
Un libro che ti avvince sin dalle prime righe quello di Francesca Palumbo, ”Il tempo che ci vuole”, e scorrendo le pagine trovi che i personaggi descritti li conosci bene, potresti essere tu o una tua amica o amico, un tuo parente. Storie così prossime che sembrano emergere dalle pagine e recitare davanti a te prendendoti per mano. Eppure quello che l’autrice riesce a comunicare sembra sempre nuovo, perchè guardato e sentito da un altro punto di vista e con un’altra sensibilità. Ne parliamo con la scrittrice.
Il tuo libro da cosa è nato? Esperienze personali, di amiche/amici?
Il mio libro è nato dall’esigenza di dar voce ad una serie di esperienze incamerate negli anni, ad alcune intuizioni, a dei ricordi, delle sinapsi emotive riaffiorate da chissà dove, dal desiderio di costruire una storia che inglobasse più generazioni.
In origine volevo raccontare soltanto di due adolescenti che cercavano se stesse e che si stavano perdendo, poi, dopo le prime pagine sono arrivati tutti gli altri personaggi e il libro è diventato più un romanzo di formazione, con un montaggio che si è formato quasi spontaneamente.
“il tempo che ci vuole percorre un po’ tutte le pagine…
L’idea del tempo è fondamentale, ma è un tempo interiore, non cronologico quello che abbraccia e percorre le pagine di questo romanzo e tutti i suoi personaggi, è un tempo di matrice bergsoniana e la frase che ricorre più volte nel romanzo ne sottolinia la valenza fortemente soggettiva per ognuno, perché non esiste un tempo del dolore, della consapevolezza, dell’elaborazione o della rinuncia universalmente uguale per tutti. Il tempo che ci vuole, in questo senso, è molto personale e intimo, è un tempo assolutamente privato ed esclusivo che riunisce in sé ciò che è stato e ciò che siamo adesso, consentendo così che le stratificazioni temporali si tocchino e che il passato incontri il presente fino a superarlo. Ecco, questo è il vero tessuto del libro. In coerenza con quanto detto finora anche il mio modo di raccontare non segue un tempo lineare, ma è soggettto a dei continui balzi in avanti o passi indietro. Non riesco a scrivere in altra maniera. Raccontare in maniera lineare generalmente mi annoia.
Il personaggio che mi piace di più o di meno?
Sono molto affezionata a tutti i personaggi, ma non posso celare una mia predilezione per Girardi e per Lacca, il primo un’insegnante e il secondo un clochard, entrambi attenti osservatori e persone estremamente generose e sensibili. Forse quello che amo meno è Carlo perché incarna una tipologia di uomo troppo egocentrica e richiedente nella relazione amorosa.
Le esperienze che narri le hai apprese dai tuoi studenti?
Le avventure delle due ADOLESCENTI…
Sono avventure mutuate dalla mia immaginazione ma al contempo dalla dose massiccia di tempo che trascorro con gli adolescenti (molto più che tra miei coetanei, sono una adulta di 50 anni!) Insegno da 25 anni, gli adolescenti sono il mio pane quotidiano, sono materia delicata e sempre in trasformazione, non facilmente catalogabile, materia liquida e sfuggente..affascinante.
Come giudichi i nostri giovani? E la nostra generazione?
Fondamentalmente io mi sforzo di non giudicare, anzi mi alleno costantemente alla sospensione del giudizio, è una disciplina che attingo dal buddismo, verso il quale nutro una sempre maggiore attrazione per alcuni assiomi basilari che si avvicinano molto al mio modo di intendere l’impegno, la consapevolezza e la responsabilità del singolo. Quello che cerco di mostrare nel mio romanzo è che, particolarmente in questo momento storico, siamo molto fragili, diffidenti e disorientati (sia adolescenti che adulti) ma in questo disorientamento collettivo le distanze esistenziali miracolosamente si accorciano al contatto con la sofferenza, che, allorchè vista, riconosciuta e accolta, può essere facilmente arginata e può addirittura portare alla rinascita, alla ricostruzione del sé. In questo senso IL TEMPO CHE CI VUOLE è fondamentalmente un romanzo sullo SGUARDO, perché è solo attraverso lo sguardo e il riconoscimento dell’altro che molti dei personaggi riprendono a sentirsi vivi!
E gli anziani in tutto questo?
Gli anziani andrebbero rispettati e “coccolati” un po’ di più (cosa piuttosto rara nei Paesi Occidentali e molto più sentita in Oriente) perché sono i portatori della tradizione e delle radici, sono la memoria, il ricordo, il passato che ritorna ma anche l’anestesia del futuro e la testimonianza scomoda che nessuno di noi è eterno. Considerazione che trova spazio nel romanzo in certe pagine dedicate esclusivamente al tema della malattia, e in particolare alla lotta serrata contro la dimenticanza. Parlo in maniera molto diretta di una patologia tanto invasiva quanto invalidante sul piano della dignità e dell’amor proprio come l’Alzheimer. Scriverne mi è servito a ricordare mio padre che ne è stato affetto, ed è stato per me un atto dovuto, e bello, per ricordarlo.
Hai scritto un altro libro, in cosa differisce da questo?
Questo è il mio secondo libro. Il primo è una silloge di racconti dal titolo VOLEVO DIRTELO.In realtà io non lo percepisco come tanto diverso dal precedente. In questo romanzo in realtà ricorrono molti dei temi già affrontati nel primo libro.
Lo consiglieresti a un adulto o a un ragazzo?
Personalmente lo consiglierei sia agli adolescenti che agli adulti perché in questo guardarsi reciproco e alternato ogni personaggio (indipendentemente dall’età) si rivela capace di acquisire una forte consapevolezza e di essere maestro per gli altri. In poche parole ognuno può insegnare all’altro qualcosa in uno scambio continuo che è fatto di sguardo e attenzione.
Nel romanzo scrivo che in giapponese Mon- do significa Domanda-Risposta.
Credo che uno dei compiti principali dello scrittore sia fondamentalmente questo, ovvero di far innamorare del mondo a dispetto di tutto; di puntare la luce sulla nostra umanità, che è qualcosa di più forte, affascinante e vincente della disumanità. Allora ecco che la gentilezza, l’attenzione e la lealtà di ognuno diventano un antidoto all’estraneità, all’indifferenza, una modalità efficace per uscire dall’autismo sociale…e questo vale sia per i giovani che per noi adulti, che evidentemente non riusciamo più ad essere dei buoni modelli!