di Francesca Spadaro
La garanzia costituzionale del diritto di uguaglianza tra i giochi di parole nel linguaggio sessuato
“Non è la sessualità a ossessionare la società, ma la società a ossessionare la sessualità fisica” Maurice Godelier
L’apoteosi del principio di uguaglianza regna nelle parole che compongono l’art. 3 della Costituzione, saggia espressione di un concetto che unisce il valore formale a quello sostanziale, per dare vita ad una mentalità aperta alla complementarietà, alla solidarietà, alla complicità tra le persone che devono essere considerate e rispettate in quanto tali. In un paese democratico, questo è il principio fondante di cui deve esserne garantito il pieno rispetto, imponendolo come valore assoluto e sanzionando le eventuali violazioni.
Analizzando questa norma, si può riconoscere come il concetto di uguaglianza di trattamento fra uomo e donna non significhi affatto negazione della differenza di genere esistente. L’uomo e la donna, che sono eguali nel loro status di persone, appartengono a generi diversi, e tale diversità, in un’ottica realmente paritaria, deve essere riconosciuta e garantita (melius, valorizzata). Il diritto, infatti, per essere effettivamente garante della eguaglianza, deve garantire che a situazioni differenziate corrisponda un trattamento differenziato. L’articolo 3 della nostra Carta Costituzionale, difatti, sotto il titolo dei principi fondamentali, subito dopo aver proclamato che tutti i cittadini sono liberi ed uguali davanti alla legge, non esita ad ammettere che la società è fondata sulla disuguaglianza di fatto . Il Costituente ha, quindi, riconosciuto che non è sufficiente sancire il principio dell’uguaglianza giuridica dei cittadini, quando esistono ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono che questa sia effettiva. Pertanto, ha assegnato alla Repubblica, vale a dire al legislatore e ai pubblici poteri, il compito di rimuovere tali ostacoli, affinché tutti i cittadini possano fruire delle stesse opportunità e possano godere, senza sperequazioni, dei medesimi diritti loro formalmente riconosciuti dalla Costituzione.
In sostanza, il comma 2° dall’art. in esame, segna il passaggio dallo Stato di diritto, a funzione protettivo- repressiva, allo Stato sociale, a funzione promozionale . Difatti, se le costituzioni liberali classiche si limitano a sancire il principio di uguale soggezione alla legge di tutti i cittadini, le costituzioni del periodo post-liberale vanno oltre, affermando il principio di uguaglianza sostanziale. Lo Stato cui e’ affidato il compito di rendere effettiva la parità fra i cittadini, può, in vista di quest’ultimo obiettivo, porre in atto trattamenti di favore a beneficio di categorie svantaggiate.
Il secondo comma implica la presa in considerazione delle possibili disparità che pesano su classi di persone o su gruppi sociali a diverso titolo svantaggiati e l’appartenere ad essi è precondizione di quelle giustificate “deviazioni” dal modello di uguaglianza formale, che consistono nel garantire loro pari opportunità. Interviene poi il disposto dell’articolo 37, unica disposizione dedicata specificamente al lavoro femminile e inserita nel titolo disciplinante i rapporti economici, che sancisce l’obbligo costituzionale del rispetto della parità di trattamento sul posto di lavoro. Da queste enunciazioni di principio emerge chiaramente come nella nostra Carta fondamentale convivano, in un delicato gioco di equilibri, un’anima genuinamente egualitaria, là dove l’obiettivo diviene la lotta alla discriminazione palese e manifesta, e una sempre viva attenzione per le diverse individualità, per la differenza, nello specifico, di genere.
Ma come viene affrontata questa lotta alla discriminazione? Come si traduce, nella quotidianità, l’esigenza di superare la relatività del concetto di differenza? Con mio grande sconcerto, nonostante i vari tentativi di imporre e imprimere il concetto di pari opportunità, in modo trasversale, nel mondo del diritto, questo assioma viene ancora ‘liquidato’ come “mera questione femminile”, tanto nel linguaggio comune, quanto in quello adottato a livello burocratico, per la redazione di documenti ufficiali che riportano indietro di anni lo “status quo” di noi donne. Se in base al principio di pari opportunità, donne e uomini sono considerati sullo stesso piano giuridico e culturale, perché poi, ad essere incluse nelle c.d. fasce deboli, siamo solo noi donne, quasi come ad evidenziarne una categoria a parte, meritevoli di una caritatevole tutela e non degne, piuttosto, di un decoroso rispetto a parità di dignità della persona in quanto tale? È nel considerare “naturale” questa categorizzazione che si realizza la peggior specie di violazione del generale principio di uguaglianza, sulle cui radici si costruisce il principio di pari opportunità, in base al quale uomo e donna sono già sullo stesso piano, in quanto persone, e la tutela deve coprire solo le persone effettivamente svantaggiate per problemi estranei alla sessualità fisica. E come negarne la palese violazione, quando nella Premessa di un documento ufficiale della Provincia di Roma , pregio di buoni propositi per il raggiungimento di decorosi obiettivi in tema di lavoro e di formazione, l’Autore – presumibilmente l’Assessore promotore di tale meritevole iniziativa – si è permesso di esprimere quel (non) senso comune che ispira la nostra cultura da secoli, relegandoci a “mera categoria” da tutelare, da integrare o da utilizzare, a seconda della necessità, del momento, della disponibilità economica esistente… “Nulla è più irrinunciabile del desiderio e se vogliamo una cosa dobbiamo avere il coraggio di metterci in fila da protagoniste per ottenerla…”, detto con le parole di un libro che affronta il problema della sessualità fisica vuol evidenziare che non possiamo continuare a permettere di considerarci ancora una categoria da proteggere, se realmente auspichiamo l’affrancamento dal ruolo di “sesso debole” , e il rispetto per il nostro sesso, per la nostra specificità che, nella sua peculiarità, è unica e indispensabile.