di Cinzia Ficco da Tipitosti
Agli inizi temeva di rompersi il naso. Poi, di fare una brutta figura. Oggi Stefania Bianchini, nata a Milano nel ’70, è una vera regina della boxe.
Ad aprile scorso l’editore Limina ha pubblicato Autoritratto di una donna sul ring, scritto a quattro amni con Antonio Voceri.
Stefania inizia con gli sport da combattimento quasi per caso, superati i vent’anni, dopo una lunga parentesi dedicata alla ginnastica artistica.
“Sono anni di grandi cambiamenti, sia per Milano – sempre più multietnica – sia per lei – si legge nel libro – alla ricerca continua di un percorso adatto alla sua indole curiosa, sempre sospinta dal desiderio di mettersi alla prova. L’Isef e qualche lavoro saltuario sono ben poca cosa”. Stefana cerca una vera indipendenza e nuove esperienze. Ecco allora che l’incontro con Claudio Alberton – maestro di karate e di svariate discipline da combattimento – diventa uno spartiacque decisivo. Stefania scopre il suo vero talento, la sua più profonda natura. Una rivelazione assolutamente fortuita, dalla quale scaturiranno, negli anni a venire: due titoli italiani (shoot boxe e pugilato); due titoli europei (pugilato); cinque titoli mondiali (quattro di kick-boxing e uno di boxe). Tutte cinture pesanti e preziose difese più volte, ad ogni latitudine e contro avversarie di tutto il mondo, per una carriera che non è retorico definire eccezionale e che solo in un Paese “calciocentrico” come l’Italia è potuta trascorrere quasi inosservata. Da qui l’idea di fissare tutto in una autobiografia-romanzo. Una sorta di Milion Dollar baby, senza milioni, ma con lieto fine.
Come è nata la passione per questo sport così violento?
Intanto non credo sia uno sport violento. Almeno: violento non è un termine adatto a descriverlo. Naturalmente il contatto fisico è portato all’estremo, su questo non ci piove, ma tutto è subordinato a tecnica, strategia, tempismo, allenamento e regole condivise. Non c’è mai animosità nei confronti dell’avversaria, semmai rispetto. In altre parole è una disciplina sportiva, nobile e con tanti campioni di altissimo livello nella sua storia. Aggiungo che il motociclismo o la discesa libera sono di gran lunga più pericolosi. Detto questo, il mio inizio è stato casuale. Non ero appassionata di fighting, né di karate né di altre discipline da combattimento. La mia è stata la scoperta improvvisa, quasi inaspettata, di un talento sul quale ho poi lavorato duro negli anni. A mano a mano è cresciuta anche la passione.
Sì, ma perché il desiderio di prenderle e darle con il rischio di farsi davvero male?
Le discipline di combattimento sono solo incidentalmente cruente. Può succedere di farsi male, ma non è lo scopo. Il fine è superare il tuo avversario, come nel tennis o negli scacchi. Io ho iniziato con il karate, uno sport che tantissimi ragazzi e ragazze praticano, compresi i bambini. Solo successivamente mi sono avvicinata ad altre discipline, come la kick-boxing. Quindi non c’entrano né una fantomatica aggressività repressa né qualsiasi altro genere di disagio, almeno per me. Si tratta solo di sport, peraltro anche disciplina olimpica.
Ma i suoi genitori hanno faticato ad accettare questa scelta?
Erano preoccupati, ovviamente. Ma hanno rispettato la mia scelta e mi hanno sempre seguita durante la carriera. E’ vero, invece, che mia madre non è mai riuscita a vedere con i suoi occhi un mio match. Si faceva fare la radiocronaca da mio padre. Cuore di mamma.