di Luciano Martinoli da ettardi.blogspot.it
Il numero di settembre di Harvard Business Review dedica la copertina al tema delle donne e della discriminazione di cui sono vittime per arrivare ai posti di comando. Gli articoli dedicano il consueto tributo all’orientamento alle diversità, identificano una forma opposta, ma non meno dannosa, di inclusione con riguardo alla diversità stessa, ma non affrontano, a mio avviso, la questione da una prospettiva realmente diversa: perché si fa riferimento ad un modello unico di persona “dirigente”, indipendentemente dal sesso, razza, religione, età, ecc.?
Ponendo la questione da questo punto di vista, complementare alla ricerca del perché le donne non fanno carriera, ci si accorge subito che è maggiormente illuminante sulle radici profonde del problema e più feconda per arrivare a determinare soluzioni. Inoltre appare evidente che il problema femminile è un corollario di un problema più ampio: quello della pervicacia ricerca del proprio “simile” (ai posti di comando, nel proprio gruppo, ecc.).
Non è esplicitato, non esiste descrizione in alcun libro, ma il profilo di “capo”, o persona in grado di dirigere, esiste ed è molto chiaro a tutti coloro che hanno responsabilità di individuarlo.
Tale modello è frutto di un inestricabile intreccio di cultura, retaggi del passato, conservazione del potere e altro, come tutte le cose umane. Ma, a mio avviso, ha alcune caratteristiche essenziali facilmente identificabili: definisce le caratteristiche “razionali”, che sono quelle meglio definibili e “oggettive”, e si limita a queste escludendone altre. Chiunque non è adeguato al modello viene automaticamente escluso, sia esso donna, gay, trans, musulmano, nero, troppo anziano, troppo giovane, ecc.
Questo modello unico si è imposto perché è il più semplice e perché non si dispone di modelli alternativi che possano tener conto delle “diversità” espresse, ad esempio, in aree quali la sensibilità, l’empatia, la compassione, l’equità, e molte altre di cui, guarda caso, le donne sono ricche portatrici.
Un modello di riferimento con queste caratteristiche, che non potrebbe, per loro natura, essere descrittivo e procedurale, sarebbe di grande aiuto non solo per risolvere il problema di inclusione delle diversità, qualsiasi esse siano. Se ci si limitasse a questo, infatti, avremmo fatto uno sterile atto caritatevole col risultato di far imbestialire i destinatari che si sentirebbero trattati da minoranza incapace.
Il modello di riferimento sulle persone e sulle loro aggregazioni avrebbe il vantaggio di accogliere la diversità come reale ricchezza di pensiero da acquisire e non, come avviene adesso, difformità da scartare o accogliere per spirito caritatevole o legge (ispirato ad esso).
Potremmo comprendere finalmente le origini dei comportamenti e attivarli, facilitando le interazioni aziendali e con l’esterno a tutti i livelli. Accetteremmo realmente, insomma, la vera natura delle persone, a tutti nota fuori dagli ambienti di lavoro, ma della quale misteriosamente ci spogliamo, appendendola all’attaccapanni insieme al soprabito, quando arriviamo in ufficio o in fabbrica e riprendendola quando ne usciamo. Inaugureremmo una stagione di sviluppo concreto perché basato sulle vere risorse di cui tutti siamo ricchissimi, ma che i capi del “modello unico imperante” ignorano o non sanno come attivare: passione, realizzazione della propria creatività, riconoscimento che crea poi benessere (al quale si tenta di arrivare ridicolmente con le palestre in azienda!).
Trovare questo modello, o iniziare a cercarlo, è possibile. A patto però di rinnovare le proprie risorse cognitive, il sottostante delle nostre proposte “concrete”. Si deve rinverdire il nostro “giardino di pensieri” con nuove piante che possano dare frutti che costituiscano ingredienti originali per i nostri elaborati mentali, se volete costruire occhi nuovi per guardare il mondo.
Tali “piante”, od “occhiali”, esistono in svariate discipline delle scienze umane e naturali. Grazie ad esse è più facile immaginare nuove proposte, formularle, renderle concrete.
Il problema femminile, come quello di tutte le diversità, non deve essere “risolto”, ma “dissolto” in un contesto nel quale il problema del diverso, chiunque esso sia, divenga semplicemente un non senso.
Comprendere e accogliere un modello professionale sulle persone e le organizzazioni è il primo serio passo in questa direzione.
E proprio le donne potrebbero dare un contributo unico e prezioso in questa direzione.
P.S. Abbiamo iniziato questo percorso di ricerca e formulato una prima proposta che presenteremo il 26 settembre. Chi fosse interessato può contattarmi
3 commenti
Interessante riflessione. Condivido a pieno l’idea che il ‘problema femminile’ debba essere dissolto e non risolto. Ora si tratta di definire il come.
Grazie Rosa del commento.
Il “come” parte prima da una maggiore comprensione, e successiva accettazione, di come “fare i conti” con la parte non razionale di ogni essere umano, cosa di cui le donne sono maestre “inconsce”, (e ahinoi proprio perchè inconsce non riescono a insegnarlo). L’importanza della conoscenza di questo “lato oscuro della luna” è dovuta al fatto che essa contribuisce in maniera sostanziale (a mio avviso prioritaria) a influenzare i comportamenti sia positivi che negativi, dunque anche le discriminazioni. Successivamente si potrebbe proporre un “metodo”, basato su di esso, che lungi da essere manipolatorio faccia emergere un desiderio di “progettualità”, di muoversi in una direzione tutti insieme (non si impara ad andare in bicicletta stando fermi!) avvalendosi del contributo di tutti.
Abbiamo provato a fare questa ricerca e una sintesi di proposta disponibile a breve via un e-book. Chi fosse interessato…
Mi interessa capire e sono interessata a leggerne report e-book ecc. Mi faccia sapere.