Si parla tanto di sharing ossia condivisione, di luoghi di lavoro, auto, bici e quant’altro ma gli italiani sono pronti a condividere?
E’ una domanda che mi sono fatta quando ho assistito al convegno organizzato alla Cattolica intitolato appunto Sharitaly. Lo sharing nato, come al solito negli USA, un paese che le innovazioni non le lascia mai indietro, sta prendendo piede in vari settori che rendono possibile travalicare la crisi odierna, ma non solo. Infatti è un sistema economico votato alla sovraproduzione ed allo spreco che è in crisi di trasformazione: meno risorse e più condivisione di quelle che sono a disposizione. Non più un’economia del ” possesso, ma dell’accesso”, come ampiamente spiega nel suo intervento di April Rinne ospite internazionale di Sharitaly, fornendo alcuni spunti chiave per il tema dell’economia collaborativa.
Secondo la ricerca di Duepuntozero (Doxa), presentata a Sharitaly il 29 novembre, gli italiani sono molto indietro rispetto ai loro partner europei infatti solo il 13% della popolazione ha utilizzato almeno una volta i servizi che permettono di scambiare e condividere i beni. Una percentuale che si avvicina però al punto critico di diffusione di innovazione (15%) teorizzata da Everett M. Rogers oltre 50 anni fa.
Il ritardo sarebbe causato da paura, sfiducia, poca informazione, ma anche dal vuoto legislativo che regoli lo sharing e che tuteli gli utilizzatori.
In Italia tuttavia, nonostante la lentezza causata soprattutto dalla penetrazione non ottimale di Internet, la Sharing economy sta lentamento crescendo e si inaugurano anche più piattafome collaborative che pian piano cambiano la propensione all’uso degli italiani. Lo ha affermato una ricerca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore presentata da Silvia Mazzucotelli Salice
La ricerca rileva circa 160 piattaforme di scambio e condivisione, circa 40 esperienze di autoproduzione, circa 60 di crowding (di cui 27 quelle di crowdfunding attive e 14 in fase di lancio). Che si tratti di “sharing” per la condivisione di beni, servizi, informazioni, spazi, tempo o competenze, di “bartering”, ovvero il baratto tra privati ma anche tra aziende o di “crowding”, ma anche di “making” cioè di autoproduzione dall’hobbismo alla fabbricazione digitale (fablab), dal 2011 a oggi i numeri sono più che triplicati, in particolare nell’ambito del turismo, dei trasporti, delle energie, dell’alimentazione e del design.
Marta Mainieri di collaboriamo.org parla di un nuovo modello di servizio che può essere un’opportunità per start up, aziende e amministrazioni ma, anche, per rispondere alle sfide a cui sono chiamate a rispondere le nostre città (più povertà, inquinamento, insicurezza)
Per capire il panorama delle start UP italiane da più di un anno la directory collaboriamo.org monitora e registra i servizi collaborativi italiani: servizi giovani, nati per la maggior parte tra il 2012 e il 2013, in crescita seppur con qualche difficoltà. E quanto ai risultati? Crescono bene le start up internazionali che arrivano in Italia (Airbnb registra nell’ultimo anno un +354% con 50mila alloggi disponibili e 12mila ospiti al giorno, mentre Blablacar riporta ogni giorno un +150%), ma anche alcune piattaforme italiane. Fubles, per esempio (337mila giocatori per 77mila partite giocate) o Gnammo (12mila iscritti con +4500 gnammers) sono significative per la loro capacità di creare relazioni con l’economia tradizionale. Questi servizi possono rappresentare un’opportunità per aziende e amministrazioni (alcune delle quali stanno già sperimentando), sia perché offrono nuovi modelli di business, sia perché possono rafforzare la coesione sociale, salvaguardare l’ambiente, favorire la ridistribuzione della ricchezza e trattenere i giovani.
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