EBREI E PALESTINESI IN LOTTA: MA E’ TUTTO COME SEMBRA?
Il genocidio degli ebrei occidentali decretato e attuato dalle forze nazifasciste nel corso della seconda guerra mondiale non ha mai cessato di tormentare la coscienza dell’umanità. Come un macigno che continua a pesare sulla coscienza collettiva del mondo.
Un costante senso di colpa solo parzialmente lenito nel 1948 con il riconoscimento ufficiale da parte dell’Onu dello stato di Israele, una sorta di terra promessa per tutti quegli ebrei che, pur sopravvissuti ai campi di concentramento, erano stati privati di una patria e dispersi dalla diaspora. In Israele, avrebbero dunque potuto vivere finalmente in pace. Questa, per lo meno, era la convinzione generale. Peccato però che il nuovo stato fosse destinato a sorgere in quella striscia di terra a ridosso del Mar Rosso da tempo immemorabile occupata dagli arabi palestinesi, che certamente non avevano gradito quello che era stato interpretato come un abuso intollerabile avevano cominciato a reagire con le armi per scacciare i presunti intrusi invasori.
Da allora i conflitti tra ebrei e palestinesi si sono succeduti a ritmo incalzante e nulla è cambiato: ora stiamo solo assistendo all’ennesimo (e forse più preoccupante) scontro tra due etnie accomunate dal medesimo obiettivo: la difesa del proprio territorio. Coincidente con Israele stesso per i primi e con la nascita dello stato autonomo di Palestina per i secondi.
I risultati sono tristemente noti. Mentre gli israeliani piangono i circa settanta militari uccisi, i civili palestinesi cadono come mosche sotto i colpi del nemico. Quasi duemila tra uomini, donne, bambini, anziani. Indifferentemente.
Eppure l’attenzione generale resta sempre rivolta a Israele, al quale è pur sempre garantito il pieno sostegno occidentale. Forse per solidarietà dettata dal ricordo dei tristi avvenimenti del passato, l’Occidente sembra voler ignorare o minimizzare le sofferenze dei palestinesi. Israele è descritto e percepito quale modello di indiscutibile democrazia in Medio Oriente. E non importa se in realtà la situazione non è poi così rosea come si vorrebbe farla apparire. Non importa se anche Israele si è reso ripetutamente colpevole di palese violazione dei diritti umani (basta osservarne l’atteggiamento adottato verso la popolazione palestinese).
Agli occhi del mondo incarna tuttora lo stereotipo della vittima da proteggere e difendere, la creatura da assecondare vantandone le virtù (vere o presunte) e nascondendone i misfatti. Come accadde tempo fa con il pinkwashing, la cosiddetta “maschera di tolleranza di Israele”, una strategia mediante la quale, per meglio propagandare la propria indole democratica, Tel Aviv scelse la tutela degli omosessuali .
In pratica si tratta di un neologismo che indica una sorta di strumentalizzazione dei diritti umani (dei gay, delle donne, delle minoranze ecc) da parte dei paesi occidentali che se ne servono poi come scudo a sostegno delle politiche imperialiste e neocoloniali in Medio Oriente.
Che è appunto ciò che sta avvenendo ora. Servendosi dei coloni, Israele cerca di ampliare la propria area territoriale a scapito dei palestinesi, che in quei luoghi vivono invece da sempre.
Eppure nessuno si sognerebbe mai di spendere parole a favore di questi ultimi. Come se i soprusi che talvolta subiscono fossero del tutto inevitabili e facessero parte di un gioco prestabilito in partenza del quale si conosce già il nome del vincitore.
I torti, è chiaro, sono attribuibili a entrambe le fazioni in lotta: se i palestinesi non vogliono cedere le armi, ricorrono ad ogni possibile forma di terrorismo (non ultima quella di scavare tunnel sotterranei per infiltrarsi in territorio nemico e cercare di uccidere il maggior numero di individui possibile), invocano il diritto ad avere uno stato autonomo, gli israeliani non intendono assolutamente arretrare sul cammino di rivendicazione della propria identità.
Lo scempio di vite umane a cui stiamo assistendo è espressione dello scontro eterno tra due popoli che rifiutano di convivere sotto una bandiera comune , facendosi beffe di qualsiasi forma di democrazia. Sotto molti aspetti tuttavia un simile scenario fornisce all’Occidente un forte alibi per manovrare i fili del destino in quei territori infelici. E questo, ovviamente, sulla base dei propri interessi.