Le donne hanno un ruolo sempre meno secondario nella guerriglia terroristica della jihad
Il terrorismo islamico sta offrendo allo sguardo occidentale il suo lato più tragico e disarmante, non solo per le atrocità commesse da fanatici che in nome del jihad vanno delirando la proclamazione di un fantomatico califfato ovunque sia possibile, ma anche e soprattutto per il ruolo sempre meno secondario che le donne stanno rivestendo in questa sorta di follia collettiva..
Se fino a non molto tempo fa esse avevano il dovere di generare figli da educare poi ai severi principi dell’islam e di mantenere i contatti tra i mariti in prigione e le cellule clandestine, oggi possono a tutti gli effetti essere ritenute protagoniste della lotta, esattamente come gli uomini.
Indubbiamente questa inversione di rotta nella strategia jihadista ha i suoi vantaggi. Primo fra tutti quello sul piano mediatico, notevolmente amplificato nei casi in cui un attentato venga compiuto da una donna.
Secondariamente non va dimenticato che le ampie tuniche che costituiscono l’abbigliamento femminile consentono di nascondere con facilità armi ed esplosivi (del resto le donne non vengono generalmente sottoposte a rigidi controlli, poiché è noto che per questioni religiose una perquisizione accurata sarebbe problematica).
A ciò si aggiunge infine il fatto che la determinazione femminile a sposare una causa (una donna decisa è notoriamente ritenuta maggiormente pericolosa, anche per via della sua predisposizione al sacrificio in sé) può fungere da stimolo per i combattenti maschi, non certo disposti ad essere giudicati meno coraggiosi di una “collega”.
In base ai dati forniti dal quotidiano spagnolo Abc, dal 1985 a oggi il 34% degli attacchi suicidi è stato sferrato da donne, adeguatamente indottrinate al fanatismo.
“La loro esperienza di morte, sostengono alcuni esperti, “è sacra e fa parte di un disegno divino tra la vita e la morte, tra il presente e il futuro, tra il mondo terreno ed il paradiso”. Morendo per la juhad possono sentirsi più vicine ad Allah.
Il loro reclutamento (effettuato tra vedove, orfane, familiari di guerriglieri già morti o detenuti) serve per ovviare alla penuria di combattenti.
Ma attenzione: le guerrigliere non intendono affatto sostituirsi agli uomini. Restano fedeli al modello di vita offerto dalle spose del Profeta e si sentono investite dal privilegio di rigenerare in qualche modo la comunità musulmana dispersa nel mondo, oppressa ed alienata.
Le donne sono particolarmente attive soprattutto sul web – dove inneggiano alla causa jihadista e spesso criticano ferocemente la visione occidentale del mondo – e nel cosiddetto jihad del sesso, che prevede per le ragazze vergini l’obbligo di contrarre brevi contratti matrimoniali con i jihadisti al fronte per fini esclusivamente sessuali.
Basta leggere un agghiacciante comunicato diffuso dai vertici del famigerato Isil dopo un successo ottenuto in terra siriana:
“Alla luce della liberazione della provincia di Ninive e del benvenuto dato dalla popolazione ai suoi fratelli mujaheddin, e dopo la grandiosa vittoria conseguita e la sconfitta dell’esercito safavide (tra il 1501 e il 1736 l’impero safavide impose l’Islam sciita nelle province sotto il suo controllo) nella provincia di Ninive e la sua liberazione, provincia questa che con il permesso di Dio sarà la residenza e il rifugio dei mujaheddin, alla luce di questo chiediamo alla popolazione di questa provincia di offrire le donne non sposate perché facciano la loro parte nella jihad al-nikah a favore dei loro fratelli mujaheddin. Su chi mancherà di farlo erigeremo la sharia e applicheremo le sue leggi”. All’appello hanno risposto molte donne da vari paesi arabi, tra cui la Tunisia. “Molte nostre giovani connazionali”, aveva del resto precisato lo scorso anno lo stesso ministro tunisino degli Interni, Lotfi Bin Jeddou, “vengono sfruttate da 20, 30 o 100 ribelli, prima di tornare in patria con il frutto di questi rapporti subiti in nome della jihad del sesso”.