Anni ’90. In Kenya con Marisa. Storia di dolore e dignità.
L’albergo è bellissimo: la perfetta realizzazione del sogno colonialista di un esteta britannico.
Quindici stanze affacciate su un verdissimo prato inglese. La grazia delle palme, l’enfasi delle acacie africane, la carnalità dei manghi, la possente eleganza dei baobab. Ci sono persino i cavalli per la promenade al tramonto lungo le dune. Sulla spiaggia, schiacciata dal sole, nel fiato denso dell’Oceano Indiano, me ne sto sdraiata su un comodo lettino, sotto l’ombrellone di macuti, mentre solleciti boys provvedono a portarmi beveroni di frutta e a scacciare i venditori di elefanti in falso ebano e oggetti vari in pietra saponaria. Lontano, alcune figurine colorate sedute sulla sabbia, mi fanno cenno di avvicinarmi.
Chiedo a un boy chi siano. << Ragazze somale, rifugiate in Kenya. Vendono parei. Se vuoi, accompagno>>. Rifiuto il suo aiuto e raggiungo il piccolo gruppo. Non tutte sono giovani, ma lo sono certamente Leila e Shade. Leila parla italiano, imparato dalla nonna che era stata a servizio fin da ragazzina presso una famiglia milanese a Mogadiscio. Compero cinque parei, bellissimi, leggerissimi, da portare in regalo alle mie figlie e do appuntamento a Leila per il giorno seguente.
In seguito, arriveranno le confidenze. Come tutte le bambine del suo paese, Leila è stata sottoposta a circoncisione e infibulazione, antico rito di origine, pare, fenicia, che nulla ha a che vedere col Corano.
Tiene gli occhi bassi e trema, mentre ricorda il terrore che l’aveva fatta fuggire. Poi, i parenti che la rincorrono e l’agguantano, la costringono a sedersi su uno sgabello, le donne che le legano le braccia dietro la schiena e quelle che le allargano le cosce, il coltello del cerimoniale che le taglia di netto il clitoride senza anestetico, l’asportazione delle piccole labbra e le spine di acacia che tengono unite le grandi labbra e un impiastro di erba, terriccio e cenere sulla ferita per fermare l’emorragia. Trenta giorni fasciata dal pube ai piedi, a letto, fra dolori atroci, in attesa della cicatrizzazione.
Ma Leila è anche particolarmente sfortunata, perché la ferita fa infezione e lei rischia di morire. Guarita, viene sottoposta a un nuovo taglio.. Un’esperienza orribile, eppure il peggio deve ancora arrivare. Attorno alla vagina le si forma una dolorosa cicatrice che le causa problemi di deambulazione. L’arrivo delle mestruazioni è una vera tragedia, ma il vero dramma sarà il matrimonio.
Occorrono cinque giorni al marito per riuscire a deflorarla, cinque giorni di disperazione per Leila e di sforzi ostinati da parte di lui. Alla fine sarà un coltello a risolvere la situazione. La vita sessuale di Leila prosegue tra continue cistiti, vaginiti, dismenorrea. Il marito ride quando la vede star male e le ripete che, non appena avrà un figlio, la farà ricucire, perché l’unico periodo bello del matrimonio è stato quello dei continui tentativi di deflorazione. Ma l’infezione, che le aveva prodotto gravi danni alle salpingi, impedisce a Leila di diventare madre. Il marito, allora, chiede il divorzio, ma, nello stesso tempo, si dà da fare per “venderla”. Per riacquistare valore commerciale, però, Leila dovrà subire una nuova infibulazione.
La guerra ha permesso a Leila di fuggire, con altre donne, riuscendo a raggiungere il Kenya. Problemi di sopravvivenza, l’hanno costretta a fare la prostituta, utilizzando, però, orifizi diversi dalla vagina. Me lo confessa a bassa voce, chinando gli occhi e coprendosi a metà il viso col velo. Una donna piena di dignità, questa Leila, nonostante la sua disgraziata vita, una delle tante donne che ha visto il suo corpo umiliato e martirizzato a tutto vantaggio di certi uomini, come suo marito, la cui eccitazione aumenta di fronte al dolore femminile.
Era decisamente splendido l’hotel di Malindi, un’oasi felice, circondata, però, da molta disperazione. Tornai a casa con una serie di ricordi contrastanti, tra cui, indelebile, quello di Leila”.