Le nostre carceri pullulano di detenuti per reati più o meno gravi, ma pochi si occupano di loro e delle loro famiglie. Eppure è un mondo che esiste e chiede aiuto. Abbiamo intervistato Marcella Clara Reni, notaio donna calabrese presidente dell’associazione Prison Fellowship Italia Onlus
Nata a Muro Lucano (PZ) nel 1956 e’ residente in Palmi, dove esercita ed è Presidente dei notai del Distretto di Palmi da molti anni. Sposata da 30 anni, e’ madre di tre figli.
Oltre ad essere un apprezzato notaio di cosa si occupa ultimamente?
Sono Presidente della Associazione “Prison Fellowship Italia Onlus” con sede in Roma, che si occupa di detenuti, ex detenuti e delle loro famiglie, federata all’organizzazione Internazionale “Prison Fellowship International” con sede in Washington D.C. (USA), presente in 135 paesi nei 5 continenti.
In tale veste ha partecipato, negli anni 2009/2010/2011, alle edizioni 57, 58 e 59 del National Prayer Breakfast organizzato dal Presidente degli Stati Uniti d’America e dal Congresso Americano
E‘ molto stimata dai tuoi concittadini..
Sono stata vincitrice del premio “Città del Sole 2011” quale donna calabrese che si è particolarmente distinta nel campo delle professioni, della cultura e del volontariato
Perchè hai scelto di rimanere in Calabria? Un notaio in Calabria, non deve essere facile lavorare in paese così penetrato dall’illegalità.
La mia è stata una scelta condivisa con mio marito, calabrese doc, per non tradire una terra povera chesoffre una terribile emorragia di cervelli e risorse. I migliori vanno via!
La Calabria, una bellissima terra, ma che a differenza di altre regioni del sud Italia non è cresciuta come meriterebbe?
La povertà peggiore di cui soffre attualmente la Calabria non è più quella economica, sociale, culturale, non soltanto, ma
l’emigrazione dei “cervelli” e dei talenti migliori. Una terra che rischiamo di lasciare nelle mani di chi già ne ha fatto scempio. Utopia? Per me realtà, triste, dura, faticosa, ma realtà.
Appena iniziata la professione, nel 1986, dopo soli tre mesi di attività, mi è stato incendiato lo studio. Ho parlato, ho denunciato, il mandante è andato in carcere e io ho camminato blindata e con la scorta per oltre un anno. Oggi non subisco pressioni di alcun tipo, perché tutti sanno da che parte sto e come la penso. Esercito la mia professione con un rigore assoluto che dopo ben 25 anni di attività nessuno ha mai potuto né contestare né scalfire. Sono il consulente di tutte le associazioni di volontariato
della zona, di tutte le associazioni anti usura, anti racket, anti mafia, anti ‘ndrangheta, anti…..ogni malaffare. Sono il ricercato consulente di tutte leassociazioni pro cultura, pro legalità, pro civiltà,, pro crescita, pro….ogni tipo di bene!
Credo che ci siano povertà, vecchie e nuove nella mia terra, ma vedo anche tante ricchezze negate!
Essere notaio e donna, faticoso?
So e sperimento che lo stile con cui lavoro e mi affatico, non solo professionalmente, sono un aiuto, un esempio e un
incoraggiamento soprattutto per i giovani. Credo che il lavoro silenzioso ma tenace alla fine ottenga risultati. Pochi? Tanti? Non me lo chiedo. Continuo a fare ciò in cui credo!
Ma i rapporti con l”’ndrangheta” non ostacolano il tuo lavoro?
Paradossalmente, proprio l’esercizio integerrimo della professione, oggi mi pone ai primi posti della classifica dei
notai calabresi. Quando annuso riciclaggio denuncio, quando vedo corruzione denuncio.
E i detenuti? Anche questa una scelta difficile
Come Presidente della “Prison Fellowship Italia Onlus” mi occupo di detenuti e attualmente porto avanti il Progetto Sicomoro, un programma di Giustizia Riparativa sperimentato con successo dalla PFI in più di 25 paesi del mondo, che prevede l’incontro dentro le mura di un carcere tra detenuti e vittime di reati analoghi per tentare una riconciliazione e una riumanizzazione degli uni e degli altri.
La nostra missione è quella di contribuire ad aumentare la consapevolezza della società civile su questi temi, cercare di
ridurre i costi sociali, contribuire ad una riconciliazione delle parti coinvolte e della comunità, contribuire a ridurre la recidiva, favorire il reinserimento sociale e lavorativo delle persone coinvolte e delle loro famiglie anche con progetti di microcredito e, in definitiva, far si che il numero delle potenziali vittime future possa col tempo diminuire.
Molti ci provano, pochi ci riescono.
Pochissimi hanno provato cosa voglia dire vedersi la vita e la famiglia trasformata da un atto di violenza e sanno cosa voglia dire confrontarsi con il dolore e tutti i sentimenti che ne conseguono. Ancora di meno sono in grado di raccontare le loro esperienze per metterle a disposizione di chi sembra anche non accorgersene o apprezzarle.
La Calabria, in particolare, pullula di vittime di mafia e criminalità organizzata e sollevare la coltre del silenzio e
dell’omertà è già un successo. Nel Progetto sperimentato, primo in Italia, nella Casa di Reclusione di Opera (MI) (dal 6 novembre 2010 al 12 febbraio 2011) due delle 6 vittime del progetto erano calabresi che hanno avuto il coraggio di opporsi alla ‘ndrangheta: Mario Congiusta cui è stato ucciso il figlio 35enne per essersi opposto ad una estorsione ai danni del futuro suocero e Nicoletta Inzitari, di 23 anni, cui è stato ucciso il fratello appena 18enne in una imboscata mafiosa. Entrambi hanno costituito fondazioni intitolate ai loro cari, giovani vittime innocenti, che lottano perché la cultura della legalità si diffonda. Il primo Progetto Sicomoro italiano ha avuto eccellenti risultati e si è rivelato un prezioso strumento di riumanizzazione all’interno delle carceri, un’ottica innovativa rispetto ad una politica di rieducazione genericamente intesa: in questo caso, attori in causa sono i detenuti ma anche
le vittime dei reati, parte attiva e passiva rispetto all’esecuzione dell’atto criminoso. Vittima e carnefice sono messi a confronto, dopo una fase di ricerca e discernimento sulla scelta dei soggetti con cui portare avanti il progetto, in un percorso di reciproca immedesimazione e conoscenza, attraverso una riabilitazione dei detenuti cui si accompagna la “giustizia riparativa” in favore delle vittime.
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