Così Serenella Antoniazzi racconta di come e quando un pomeriggio di qualche anno aveva pensato di farla finita a causa della crisi della sua azienda. E invece ne vien fuori e scrive un libro.
da tipitosti.it
“Mi ritrovo all’ingresso dell’autostrada senza rendermene conto. I camion sfrecciano alla mia sinistra, non guardo lo specchietto, mi immetto in corsia. Il clacson di un tir mi stordisce. Il ritmo del mio respiro cresce. Sono sola con il rumore delle ruote sull’asfalto, amplificato dalla pioggia, confuso con quello del tergicristalli. Non posso portare a casa un’altra sconfitta. E’ solo colpa mia. Lungo i finestrini laterali vedo le perle d’acqua rincorrersi, unirsi, formare rivoli tremanti agitati dall’aria e dalla velocità. Poi si lasciano andare e volano via. E se volassi via anch’io? Se accelerassi e chiudessi gli occhi, mi accorgerei solo d’impatto e poi più niente”.
Così Serenella Antoniazzi, nata nel ‘68 a Portogruaro (Ve), descrive un pomeriggio di qualche anno fa in cui aveva pensato di farla finita.
Lo fa nel suo libro, intitolato “Io non voglio fallire”, scritto con Elisa Cozzarini, giornalista e pubblicato da Nuovadimensione. Centonovanta pagine in cui racconta il periodo peggiore della sua vita, quello in cui “aveva la sensazione di essere diventata poco più di un cane randagio, senza pace”.
Problemi con la sua piccola azienda di levigatura del legno, la Aga s.nc (nata nel ’72 da un’idea di suo padre Arnaldo e suo zio, Giuseppe Antoniazzi), gestita con suo fratello a Concordia Sagittaria, in provincia di Venezia, le avevano fatto perdere la voglia di vivere.
Il lavoro per lei, che è entrata in azienda a sedici anni, è sempre stato tutto. Quando era bambina, le sue giornate si dividevano tra la scuola, la casa e il capannone, costruito mattone su mattone da suo padre. A sedici anni aveva dovuto archiviare il suo sogno: fare l’arredatrice.
L’Aga nasce come pulitura metalli e poi nel 1986, dopo un anno dall’ingresso di Serenella in azienda, il papà e lo zio si dividono e lei con suo fratello decide di proseguire nel settore del mobile, cambiando totalmente genere. Da allora tanti sacrifici.
“La mia vita – scrive – non era la vita di una ragazza normale. La calce viva mi incendiava naso e gola, avevo la pelle segnata dalle scottature del ferro rovente, i polpastrelli incisi dalle estremità dei tubi. Sulle mani porto le cicatrici di quei giorni, posso sentirne ancora oggi la durezza. Essere lì era un dovere nei confronti dei nostri genitori, non un sacrificio. Per chi ha un’azienda di famiglia, la strada è spesso segnata”.
Le cose vanno bene per tanti anni. L’impresa cresce. Intanto a ventiquattro anni Serenella si sposa, ha un figlio, che oggi ha diciannove anni. Nel 2008 i primi effetti della crisi internazionale, ma l’Aga resiste: attinge ai risparmi, mantiene i posti di lavoro. Tre anni dopo arrivano importanti commesse, la produzione riprende a girare. Nel 2012 l’amara sorpresa: una mole di lavoro, fatto e consegnato, non viene pagato. Di qui insoluti, posticipi, acrobazie bancarie.
“La crisi – mi dice – era già ben presente da circa quattro anni, noi tutto sommato avevamo lavoro e cercavamo di andare avanti, ma piano piano il posticipo dei pagamenti è diventato insostenibile al punto di non avere neanche i soldi per il panettone a Natale del 2012. Ho cercato di incassare quanto mi spettava, ma nel giro di un paio di mesi il mio cliente è fallito, portandosi con sé tutto il nostro fatturato e lasciandoci nella totale disperazione. Mi è costato tanto ipotecare il capannone costruito con sudore e sangue da mio padre. Ma non avevo scelta. Mi sentivo disperatamente sola. Era come se fossi finita in un film dell’orrore”.
Dopo qualche mese, Serenella, sempre più sola, scrive a un quotidiano locale. Chiede sostegno alle istituzioni, alle associazioni. “Mi dicevano – racconta – le cose funzionano così e non c’è modo di cambiarle. Una pacca sulla spalla e aiutati che Dio ti aiuta. Volevo morire. Ho pensato di suicidarmi. Ma ho avuto paura, ho temuto di restare paralizzata, lesionata e diventare un peso ulteriore per la mia famiglia. Ho visto mio figlio come l’unica vera vittima di tutto questo. Non volevo fargli del male”.
Serenella si riprende e torna a chiedere aiuto. Fino a quando non si accorge di lei un imprenditore che aveva vissuto la stessa sua esperienza. L’imprenditrice si sente più forte. Comincia a riconsiderare la sua vita. Non si sente più un’incapace. Con l’aiuto dei parenti, dei dipendenti rimasti vicini nei sacrifici, trova il coraggio di lottare. Coinvolge altri fornitori nelle sue stesse condizioni in un’azione giudiziaria.
Oggi è più serena. E’ riuscita a ricomprare quanto aveva perso, mentre “il responsabile – afferma – gira tranquillo. L’attività rende per il presente, ma non riesce a far fronte al debito accumulato nei confronti dello Stato per il pregresso. Dopo aver perso 3/4 di fatturato, l’Erario pretende ugualmente gli oneri maturati. Impossibile incassare una volta e pagare due. Non mi sarà restituito nulla. Le aziende per cui lavoravo sono risultate scatole vuote. Per la class action la Procura ha ritenuto fondati i nostri suggerimenti. Non ci costituiremo parte civile perché troppo logorante e costoso questo cammino. Le nostre risorse resteranno in azienda per salvare i posti di lavoro e le nostre vite. Spero che la mia storia serva da modello perché le leggi sul fallimento cambino e il Governo si impegni a sostenere le piccole e medie imprese, ricchezza del nostro Paese. Non è andata benissimo per l’azienda, però, sono viva e ho accanto la mia famiglia”.
Ora ti senti tosta? “ Beh – replica – lo dovrebbero dire gli altri, ma considerando che, dalla Guardia di finanza sono andata da sola, mi sono autodenunciata, sto affrontando giudici e avvocati, porto avanti una battaglia per tanti, ma spesso sola, magari un pochino tosta lo sono. Forse non un pochino. Dopo una giornata di lavoro, nonostante tutto, mi preparo per il giorno dopo, sperando di viverlo ancora nella mia azienda. Continuo a mettercela tutta”.