E’ innegabile quanto più siano grandi, nell’Ifigenia in Aulide, i due personaggi femminili.
Come ogni anno al teatro greco di Siracusa da metà Maggio a fine Giugno va in scena la tragedia antica; quest’anno Le Supplici di Eschilo, l’Ifigenia in Aulide di Euripide e la Medea di Seneca.
Io in prima persona ho avuto la grande fortuna, mi sento di dire, di assistere alla prima dell’Ifigenia in Aulide, il 16 Maggio.
Con la regia di Federico Tiezzi e la traduzione in italiano di Giulio Guidorizzi, l’opera è stata interpretata da attori quali Sebastiano Lo Monaco, siracusano (Agamennone) Lucia Lavia, figlia d’arte (Ifigenia) ed Elena Ghiaurov, attrice milanese di origine bulgara (Clitemnestra).
L’esercito greco, radunatosi per partire per Troia è fermo in Aulide, a causa dell’assenza di vento; i guerrieri sono insofferenti e inquieti; l’indovino Calcante fa sapere ad Agamennone che la dea Artemide,offesa, impone il sacrificio della figlia di Agamennone, Ifigenia, per far spirare nuovamente il vento. Agamennone manda dunque un messaggio per far venire in Aulide la figlia con la scusa delle nozze con Achille; la figlia sarà accompagnata dalla madre Clitemnestra. Da poco prima dell’arrivo delle due donne prende le mosse la tragedia di Euripide, composta sostanzialmente da una successione di dialoghi, veri e propri agoni retorici, che vedono l’interazione e il confronto fra due personaggi: il vecchio servo e Agamennone; Agamennone e Menelao; Ifigenia e Agamennone; Clitemnestra e Achille; per culminare verso il finale nel confronto/scontro fra i due coniugi, Clitemnestra e Agamennone che potrebbe essere considerato quello che in narratologia si chiama Spannung, il vertice di tensione narrativa; ma poi seguono ancora la supplica della figlia al padre per avere salva la vita e successivamente la sua risoluzione di Ifigenia di farsi grande nel sacrificio per la patria; addirittura il tentativo di consolare la madre che la perderà; fino ad arrivare all’incerto finale.
La messa in scena, l’impatto visivo dei costumi e dell’allestimento sono efficaci, bellissimi; giocano sul contrasto fra il nero e oro dei guerrieri, austeri e pronti alla guerra, e i colori sgargianti non solo del coro delle donne di Aulide ma anche delle due protagoniste femminili, le cui vesti accostano i toni del rosso e il più regale bianco, vestite a festa per quello che pensano sarà l’evento più importante delle vita di una giovane donna.
Ma ciò che affascina di qualsiasi opera rimasta grande è l’umanità; o meglio l’umano incarnato dai vari personaggi; perché le passioni, i sentimenti, le emozioni sono sempre le stesse, dall’antica Grecia fino a noi. Cambia il contesto, certo, che può mutare le priorità, i valori e le intensità di ciò che le persone provano; e può cambiare i moventi di specifiche situazioni. Ma c’è un motivo se queste opere ci parlano ancora e ci emozionano ancora: nonostante il tempo, ancora per noi è possibile riconoscerci e immedesimarci in queste storie.
È dato certo che la società greca fosse misogina; il posto riservato alle donne era il gineceo, una parte specifica della casa; lì dovevano occuparsi delle loro opere: tessere, occuparsi della casa e dei figli; non era loro consentito con facilità di uscire.
Eppure, o forse proprio per questo motivo, le donne sono frequentemente oggetto di narrazione tragica: perché riescono a essere grandi pur in una condizione di partenza svantaggiata; oppure perché soccombono a questa condizione.
Sono gli uomini, che hanno il potere politico, militare e sono i capi famiglia. Eppure in questa tragedia i personaggi maschili appaiono pavidi, ingannatori, mossi da intenti utilitaristici
Agamennone, in primis: l’antefatto ci dice che astutamente ha ordito l’inganno per portare Ifigenia in Aulide; poi si pente: sostiene con ardore che non può e non vuole sacrificare la figlia per consentire una spedizione militare che vada a riprendere Elena, moglie traditrice di Menelao; poi nuovamente muta opinione pensando alle parole di Menelao, e teme l’astuzia di Odisseo, le reazioni dell’esercito frustrato nel suo desiderio di combattere già da troppo tempo, la perdita della sua autorità di capo; ama sinceramente la figlia, ma in fondo la ritiene sacrificabile; crede di avere completa autorità sulla moglie, ma al tempo stesso la teme.
Menelao pensa solo allo smacco che un troiano gli abbia sottratto la moglie; vuole vendetta per l’onore offeso; non pensa a Ifigenia come una nipote, ma solo come a un mezzo per far partire la spedizione.
Achille, che si assume il ruolo di difensore della fanciulla in pericolo, lo fa non tanto perché realmente pensi che il sacrificio di Ifigenia sia assurdo ed ingiusto, ma perché si sente in prima persona offeso per avere fatto inconsapevolmente parte dell’inganno; lui, il grande eroe, è stato manovrato a sua insaputa. E infatti tradisce i suoi reali intento in un a latere, dicendo che senza esitazione avrebbe sacrificato Ifigenia se non fosse stato direttamente coinvolto.
E infine Odisseo, assente, mai sulla scena, ma la cui presenza aleggia perché sa del sacrifico richiesto dalla dea, perché potrebbe rivelarlo all’esercito, e se l’esercito sapesse, Ifigenia non avrebbe scampo e Agamennone avrebbe le mani legate. Come si possono confrontare l’onore offeso dell’Ellade e la vita di una vergine?
Certo, gli studiosi ci dicono che Euripide, il terzo dei grandi tragediografi in ordine temporale, predilige gli antieroi, i deboli; che preferisce le sfumature psicologiche e i vacillamenti della volontà all’eroismo inattaccabile di Eschilo e Sofocle.
Ma è innegabile quanto più siano grandi, nell’Ifigenia in Aulide, i due personaggi femminili; grandi sempre nell’ambito di ciò che è in loro potere fare o non fare. Ma grandi.
Ifigenia, teneramente entusiasta più di rivedere l’amato padre che di sposarsi, è costretta a passare, incredula, dalla felicità e dall’attesa del matrimonio alla disperata paura della morte, che per i Greci altro non è che buio, l’eterna negazione della luce del sole, in cui si aggirano ombre infelici. Prega e supplica in nome dell’amore che la lega al padre, del fratellino Oreste che non la vedrà più; sostiene l’assurdità di dover morire a causa di Elena, donna infedele e traditrice del marito e della patria; ma, capito forse che il destino è nei fatti ineluttabile, decide quasi repentinamente di trasformare la disperazione in esaltazione gloriosa, e di trasfigurare il sacrificio in quello che avrebbe dovuto essere il suo matrimonio.
E infine Clitemnestra, la madre e la moglie; Clitemnestra che, riferisce nel suo intervento principale, ha accettato come marito Agamennone nonostante le avesse ucciso il marito precedente e il figlio…costretta dal padre aveva dovuto fare buon viso a cattivo gioco; e che comunque ad Agamennone ha dato quattro figli, comportandosi da moglie obbediente. Tuttavia questa è anche la donna che ha ben chiaro il suo ruolo e decisamente rifiuta di obbedire al marito che le ordina di tornare a Micene prima delle nozze della figlia; in questa tragedia Clitemnestra è prima di tutto una madre; che deve e vuole essere presente nel momento del matrimonio della figlia, che la vuole preparare e salutare nella maniera adeguata; ed è colei che, scoperta la verità, sembra essere una leonessa che lotta con tutte le sue forze per difendere la sua prole; le sue armi, qui, consistono solo nella sua capacità di persuasione verbale e al limite nel tessere alleanze; cerca infatti di trarre dalla sua parte Achille e poi affronta con fierezza il marito cercando di farlo ragionare, di blandirlo (non molto), di minacciarlo, neanche troppo velatamente, di ciò che gli potrebbe succedere una volta tornato in patria da Troia. Ma le sue armi, purtroppo, sono spuntate…
Certo qui la parte offesa sono le donne, e io sono una donna…ma comunque assistendo a questo spettacolo mi è capitata una cosa che non mi era mai successa: alla fine singhiozzavo e mi sembrava di non riuscire a fermarmi. Piangevo per una fanciulla che ama il padre e ne viene uccisa e per una madre disperata ma piangevo anche per me, perché in quelle dinamiche, in quei sentimenti, ho rivisto tanto di mio e mi sono identificata un po’ in Ifigenia, sì, ma di più in Clitemnestra, vedendo in lei sia mia madre sia io come madre, anche se la mia realtà ora non è questa. E quasi mi sembrava di essere lì, nel mezzo del teatro, tra Agamennone e Clitemnestra, sconvolta e turbata. Ed è proprio questa la catarsi definita da Aristotele: la purificazione dalle passioni rivivendole attraverso i personaggi in scena. Non credevo potesse succedere davvero così. E invece sì. Perché gli uomini e le donne cambiano nelle epoche e nelle situazioni e nelle società, e questi sono l’evoluzione e il progresso, ma rimangono sempre uguali, mossi dalle stesse passioni, e questi sono le radici, la trama sottostante, l’immortale fascino .