There is no ‘one best way’ . cinquant’anni dopo: una maestra e le auodidatte
Il lavoro e il management sono un campo dove finora c’è stata (quasi) solo una cultura ‘maschile’. Così spesso i manager finiscono per vedere sempre le stesse cose, con lo stesso punto di osservazione. Molte donne, invece, stanno portando visioni e pratiche lontane dai modelli e dai principi usuali del management quando questi si mostrano inefficaci insufficienti, controproducenti. Certo, non solo le donne e non tutte le donne hanno un atteggiamento così. Vediamo tuttavia che questo cambiamento viene oggi più da donne che da uomini, e ragioni ce ne sono.
Le donne arrivano nel management con la testa più sgombra, meno condizionate a comportarsi secondo i modi del potere, dal quale sono state tenute fuori per secoli. Meno formate da una cultura manageriale che trasmette modelli consolidati e dati per unici, perché anche dai ruoli decisionali sono state tenute fuori. Meno portate a fare come si è sempre fatto perché loro non l’hanno mai fatto. Vedono cose diverse e vedono le cose diversamente, e per come le vedono non ci sono riferimenti consolidati. Partono da quello che hanno davanti, perché alle spalle hanno quasi solo esperienze di uomini.
Tuttavia le donne parlano poco di queste loro esperienze innovative, perché a loro sembrano cose ovvie e semplici, proprio perché non riconducibili a grandi modelli di management. Così queste esperienze non vengono valorizzate né fatte conoscere. Non entrano nella cultura di management.
Per questo pensiamo -noi di Donnesenzaguscio[1]– che su queste esperienze è importante riflettere, per cogliere quello che ci insegnano e può essere trasmesso, la visione che le ha orientate e rese efficaci. E abbiamo avviato un lavoro di riflessione su pratiche innovative di donne (un lavoro in corso, che prenderà una sua strada mentre si sviluppa). Pensare a partire da una pratica esperita serve a trasformare l’azione in conoscenza, a tenere insieme pratica e teoria.
Questo è molto importante per un aspetto del diverso approccio manageriale delle donne. Vediamo come gli uomini abbiano una tendenza all’astrazione, a ragionare per teorie, riferirsi a modelli e schemi sperimentati. Le donne più spesso maturano le decisioni tarandosi sulla situazione reale che hanno davanti. Un modo di pensare libero da pregiudizi e attento alla specificità, alle circostanze, al contesto umano e affettivo. Le donne si muovono con dei progetti in testa, ma non cercano le soluzioni nei modelli e nelle teorie di management. Le donne non hanno in mente modelli definiti, ma criteri e valori sì. Il management nasce dalla pratica, dal contatto diretto con le persone e le situazioni
Proprio mentre cominciavamo a lavorare a questo progetto, è successa una coincidenza . Ci siamo imbattute in una conferenza su Joan Woodward, importante studiosa delle organizzazioni quasi cancellata dal patrimonio culturale manageriale. Dove abbiamo trovato concetti che emergono dalle esperienze nostre e di altre manager. [2]
Joan Woodward (1916-1971) fu una pioniera della ricerca empirica sulle strutture organizzative. Fu lei a introdurre gli studi di Industrial Sociology all’Imperial College of Science and Technology di Londra. Fu una dei cosiddetti Magnificient Seven, i maggiori studiosi al mondo di organizzazione, riconoscimento eccezionale per una donna negli anni 60. Era parte di un’avanguardia che segnò l’epoca d’oro della ricerca empirica psico-sociologica sull’industria in Gran Bretagna, che cambiò il modo di pensare all’organizzazione aziendale, entrando per la prima volta nelle aziende, interrogando i dati di realtà, ascoltando le persone coinvolte.
Un’avanguardia che comprendeva un folto gruppo di ricercatrici intorno a Woodward: Lisl Klein -la sua principale collaboratrice- Margaret Simey, Marie Jahoda, Nancy Seear, Silvia Shimmin, Dorothy Wedderburn, Enid Mumford, Margaret Stacey. In continuità con la linea di pensiero di Martha Beatrice Webb, co-fondatrice della London School of Economics.
Dal 1950 per dieci anni Woodward condusse questo tipo di ricerca sull’organizzazione di 100 aziende manifatturiere. I risultati furono oggetto del libro Industrial Organization. Theory and Practice. Il titolo sottolinea l’innovazione che contiene: teoria e pratica. Le teorie devono passare dalla prova di realtà
Il suo studio fu dirompente rispetto al modello allora imperante e indiscusso dello Scientific Management,dimostrando che non c’era correlazione statistica tra l’adozione di quel modello organizzativo e il buon risultato economico delle aziende. Le aziende di successo erano quelle che adattavano l’organizzazione alla loro specifica realtà, non necessariamente quelle che applicavano i principi teorici che si insegnavano all’università. Woodward trovò come variabile centrale per queste diverse scelte organizzative la tecnologia utilizzata in funzione del processo produttivo. Ma il discorso evidentemente riguarda qualunque altra variabile strutturale che abbia un’influenza sull’organizzazione. Il senso è più ampio: Woodward dimostra empiricamente che i modelli allora indiscussi funzionano bene in certi tipi di aziende ma non in altre, non sono universalmente efficaci. Non esiste un modello organizzativo ideale che porti buoni risultati in tutte le situazioni.
Queste affermazioni -oggi scontate- furono dirompenti. Smentivano i modelli ritenuti scientifici e universali, mettendo in discussione come veniva formata la classe dirigente dalle università. Una prospettiva inaccettabile. Soprattutto perché Woodward era parte di una scuola di ‘scienze di direzione’, il cui compito era proprio definire e prescrivere le regole di management che le aziende avrebbero dovuto adottare, formando i manager su quelle prescrizioni
La ricerca empirica di Woodward implica invece questo interrogativo: quanto queste teorie sono nella realtà utili per l’economia di un’azienda? Senza menzionare esplicitamente questo scopo nei suoi scritti, il suo lavoro ha dato una risposta sottoponendo a verifica i modelli accademici nella pratica, confrontando i risultati economici delle aziende che li avevano adottati con quelli di aziende con un’organizzazione diversa. “Per un gruppo di ricerca espresso da un College che impiegava tempo e sforzi per insegnare temi di management, la mancanza di qualsiasi interrelazione fra successo economico e ciò che è generalmente considerato come solida struttura organizzativa fu particolarmente sconcertante… scatenò una tempesta. Ed è stata dimenticata” racconta Lisl Klein.
- Woodward fu emarginata nell’ambiente accademico. Sui suoi lavori e le loro conseguenze scese il silenzio.
- Aveva aveva messo in discussione l’approccio accademico acriticamente accettato, e aveva anche toccato un aspetto fortemente politico. Infatti la reazione alla sua ricerca con una difesa rigida del modello ‘classico’, contro ogni evidenza empirica, porta facilmente a pensare che lo scopo non fosse tanto affermare una presunta efficacia organizzativa, quanto una definizione sociale, prima che professionale, del management. Un management rivolto al controllo dell’azienda attraverso la stratificazione gerarchica del potere, un modello di classe dirigente autocratica e legittimata ad esserlo.
Purtroppo non è una storia superata, molti aspetti sono ancora attuali: dalle strutture gerarchiche finalizzate al potere dei manager e al controllo più che al buon funzionamento aziendale, fino ai modelli fuori dai quali non si può andare.
Woodward proseguì comunque le sue ricerche, che portarono a definire un nuovo pensiero organizzativo, nominato come contingency theory: non esiste ‘un modo ottimale’ di organizzare e dirigere un’azienda, il modo migliore si trova tenendo conto delle circostanze specifiche, della contingenza. There is no ‘one best way’.
Questo concetto è lo stesso che abbiamo visto ricorrere in molte esperienze di donne : lavorare sulla realtà, tenere conto delle specificità, pensare le soluzioni più adatte alla situazione, senza confinarsi nel ‘si fa così’. E c’è anche un altro punto di contatto.
Woodward definisce questo suo studio accademico non un modello teorico per le aziende ma piuttosto “a body of knowledge and methodology that can be communicated and used”, un corpo di conoscenze e metodi che possono essere comunicati e usati.
Non contrapporre teoria e pratica, ma non tenerle separate: è proprio quello che cerchiamo di fare ragionando sugli orientamenti di pratiche innovative che vengono dalle donne. Non si tratta di definire un nuovo rigido modello manageriale, ma apprendere dall’esperienza la conoscenza e i princìpi che possono essere trasmessi.
Forse nessuna delle manager che abbiamo visto agire partendo dalla realtà contingente ha sentito parlare di Woodward. Possiamo dire però che ci siamo mosse con orientamento simile, da autodidatte che apprendono mentre agiscono. L’incontro con Woodward -una maestra che non sapevamo di avere, perché di lei in nessuna università si parla- ci rafforza nella fiducia in noi stesse. E ci piacerebbe contribuire a riportare il suo pensiero di discontinuità nelle business school, nella cultura manageriale.
[1] www.donnesenzaguscio.it
[2] Vedi: Joan Woodward Memorial lecture tenuta da Lisl Klein alla Tanaka Business School, Imperial College, Londra nel maggio 2004: ‘Applied social science: is it just common sense?’ www.uk.sagepub.com/managingandorganizations/downloads/Online%20articles/ch13/1%20-%20Klein.pdf