L’indice sull’uguaglianza di genere 2015, presentato il 25 giugno a Bruxelles dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (EIGE) ci informa che negli ultimi 10 anni, i progressi per il raggiungimento della parità tra donne e uomini sono stati nel complesso poco significativi in tutta Europa e in alcuni Paesi addirittura si è tornati indietro.
Il punteggio complessivo dell’indice per l’UE è salito da 51,3 su 100 nel 2005 a 52,9 nel 2012. L’indice viene aggiornato biennalmente.
L’indice sull’uguaglianza di genere si articola su sei domini principali (lavoro, denaro, conoscenza, tempo, potere e salute) e due satellite (violenza contro le donne e disuguaglianze intersezionali). Si basa sulle priorità politiche dell’UE e valuta l’impatto delle politiche in materia di uguaglianza di genere nell’Unione europea e da parte degli Stati membri nel tempo.
Qualche passo in più si è registrato in termini di “potere” e di accesso ai vertici : si passa da un valore 31,4 su 100 nel 2005 a 39,7 nel 2012. Sostanzialmente lo squilibrio permane. L’Iaziendali e istituzionalitalia quota 21,8 su 100.
Permane un elevato livello di segregazione di genere nel mercato del lavoro, in pratica siamo schiacciate in mansioni e lavori tipicamente femminili, sanità, servizi sociali istruzione.
Siamo più istruite degli uomini, ma anche più “segregate”, facciamo fatica a espanderci in tutti i settori di studio e di specializzazione. La situazione è aggravata da una decrescita per quanto riguarda la possibilità di accedere a una istruzione/formazione permanente.
Se guardiamo il dominio della salute, l’indice medio europeo è elevato, 90 su 100, l’Italia giunge a quota 89,5. Un dato da tenere sotto controllo, perché in tempi di crisi, alcuni Paesi hanno optato per un rafforzamento dei servizi sanitari pubblici, mentre altri hanno tagliato o posto a carico dei cittadini i costi sanitari, in precedenza gratuiti. Si comprende come per le donne questo aggravamento dei costi di assistenza sanitaria possa incidere negativamente a lungo andare sulla loro salute, sia in termini di prevenzione che di cura. Tutti noi conosciamo gli effetti disastrosi di anni di austerity sulla sanità greca e sulla salute della popolazione. Il tavolo della salute non può essere il tavolo da gioco della finanza e degli esperimenti di un’economia attenta solo alle ragioni del denaro.
Ma se osserviamo l’ambito “tempo” che dovrebbe misurare la distribuzione dei tempi di cura e di lavoro tra uomini e donne, comprendiamo il vero stato della situazione: il punteggio è di 37,6 su 100 per la media europea, 32,4 su 100 per l’Italia (suddiviso nei sotto-domini: care 40,4, social 26, segnale del fatto che possiamo contare poco sui servizi sociali). Niente a che vedere con il 61,3 della Finlandia. Se sembra migliorare la condivisione della cura dei figli, sul versante delle altre incombenze quotidiane domestiche il divario non sembra restringersi. Questo dato risulta ulteriormente pesante, se lo associamo alla decisione annunciata lo scorso 1 luglio da parte della vicepresidente della Commissione Europea Timmermans di ritirare la direttiva sul congedo di maternità. Ne avevo già parlato qui. Un pessimo segnale dall’Unione Europea e dalla sua leadership. Indice di una scarsa attenzione e capacità di incidere in politiche di pari opportunità. Perché oltre le relazioni e le statistiche, occorre saper avviare azioni concrete, investendo misure concrete per sostenere e salvaguardare i diritti delle donne. Che senso ha misurare dei dati, se poi la politica e le istituzioni europee non sono in grado di varare iniziative mirate, vincolanti per gli Stati membri, al fine di garantire un humus più agevole per le donne?
Abbiamo un gap salariale medio del 16%, con significativi peggioramenti in caso di maternità. Questo espone le donne a un maggior rischio povertà, soprattutto in vecchiaia, quando le pensioni risulteranno proporzionalmente più basse rispetto a quelle degli uomini. Abbiamo di fatto una incapacità di incidere sulle politiche degli Stati membri, che spesso varano provvedimenti in materia di equità di genere che restano lettera morta, un puro esercizio di letteratura giurisprudenziale.
Non si comprende come si possa pensare di migliorare queste percentuali, se di fatto non ci sono interventi efficaci a sostegno della partecipazione e permanenza delle donne nel mercato del lavoro (l’indice EIGE medio è 72,3, l’Italia è a quota 57,1). Nel nostro Paese poi siamo ben lontani dagli obiettivi Europa 2020, che prevedeva di raggiungere il 75% delle donne occupate. Da questo deriva anche il valore dell’indice denaro, che rappresenta l’indipendenza economica delle donne. Un lavoro sicuro e tutelato ha benefici su molti aspetti e decisioni nella vita di una donna e non solo.
Guardiamo al nostro Paese. A livello nazionale nel 2012 siamo al 41,1 su 100 (indice EIGE). Qualche passo in avanti è stato compiuto: nel 2005 eravamo a 34,6, nel 2010 a 39,6. Se guardiamo i vari diagrammi per ciascun ambito, si nota una certa stagnazione, oltre a essere al di sotto della media europea. Eppure leggendo i riferimenti normativi nazionali, non siamo proprio rimasti fermi, evidentemente i risultati concreti non si sono visti.
Nell’analisi di dettaglio dell’Italia viene fatto un bilancio degli interventi legislativi posti in essere, a livello nazionale e regionale.
Insomma, dalla lista delle leggi risulta che non siamo stati con le mani in mano, ma se guardiamo la pratica, ci rendiamo conto che la favola non è come può sembrare. Purtroppo le norme non sono sufficienti a garantire un sensibile miglioramento.
Poi ci troviamo Salvatore Negro, come neo assessore regionale pugliese alle Pari opportunità, uno dei principali detrattori dell’emendamento sulla parità di genere, culminato poi nella bocciatura del medesimo emendamento 50&50 nella legge elettorale regionale. Insomma non tira una buona aria per le donne.
Si comprende che i fatti dimostrano quanto spesso le parole siano vuote, adoperate esclusivamente per avere solo una apparente infarinatura di equità e parità. Forse anziché continuare a varare nuove norme, basterebbe semplicemente applicare l’art 3 della nostra Carta Costituzionale, rimuovendo quegli ostacoli che ci rendono cittadine ancora un passo indietro ai cittadini.
Il report EIGE poi si sofferma sull’importanza del contesto culturale, sociale e istituzionale nel combattere la violenza contro le donne. Alti livelli di eguaglianza di genere rendono le donne più propense a denunciare, anche grazie a una maggiore fiducia nella giustizia istituzionale e nelle forze di polizia.
Stesso discorso quindi vale per l’inaccettabile superficialità con cui si affronta il problema della violenza contro le donne a livello nazionale. Siamo chiaramente fermi a una marginalizzazione della questione, le donne continuano ad essere uccise e a subire violenze, ma gli interlocutori istituzionali e le loro proposte risultano inadeguati. Se ne parla sempre meno e sentir dire che “la colpa è delle donne”, è come se si commettesse violenza due volte. Quando crederete alle parole di una donna che chiede aiuto? Quando smetterete di giudicare le donne sotto un metro diverso, quando verremo difese in tempo, prima che sia troppo tardi?
Non abbiamo ritenuto necessario e urgente avere un dicastero dedicato alle pari opportunità e questo a dice lunga. Nonostante le varie pressioni e richieste nulla ancora si muove. Non ci basta qualcuno che ci sciorini dati, ci vuole competenza, attenzione e conoscenza delle problematiche delle donne, a livello nazionale e locale. Saremo sempre indietro se non riusciremo a invertire la rotta. Non ci bastavano ieri e non ci bastano oggi le rassicurazioni che si prenderanno cura delle questioni delle donne. Che da bravi uomini ci porteranno su un palmo di mano verso la piena uguaglianza. Non siamo inadeguate, come qualcuno paternalisticamente vorrebbe indurci a pensare, e non abbiamo bisogno di essere educate e indottrinate. I nostri temi resteranno marginali se non riusciremo ad avere delle rappresentanti degne e combattive. Non sediamoci ai tavoli per raccontare quanto siamo state brave a giungere a ruoli di rilievo, ma lavoriamo affinché altre, tantissime donne possano partecipare e far sentire la propria voce. Facciamo valere il nostro saper fare e pensare differente. Noi stesse dobbiamo renderci attive e cercare di cambiare le cose. Siamo considerate una forma di welfare gratuito, che viene dato per certo. Iniziamo a praticare una condivisione dei compiti di sostegno familiare e chiediamo che venga riconosciuto questo lavoro invisibile. Coltiviamo quel cambiamento culturale necessario.