In tournée in molti teatri italiani e proposta in questi giorni al Piccolo Grassi di via Rovello a Milano, la piéce di Emma Dante, è un’opera preziosa nel panorama teatrale italiano contemporaneo.
Artediparte scrive all’autrice una lettera aperta.
Cara Emma,
abbiamo assistito al tuo Le sorelle Macaluso, e ne siamo uscite arricchite, trasformate, addolorate. Sentiamo il bisogno di ringraziarti per il tuo lavoro, ormai decennale, che illumina il teatro italiano contemporaneo, e fare qualche considerazione sulla creatività femminile.
Il lavoro: vorremmo ringraziarti, cara Emma, anzitutto perché sei una capocomica, cioè, ti poni nello scenario teatrale contemporaneo in modo al tempo stesso antico e attuale. Metti al centro le persone, che devono anche vivere di teatro, non i personaggi o l’ego sproporzionato di un Autore (maschile nient’affatto casuale). Secondo una consolidata tradizione del Teatro italiano, oggi per lo più tramontata, produci lavori per una compagnia che riesce a sostentarsi, vivere e produrre cultura e reddito. Un esempio di produttività femminile nell’arte. Il tuo teatro di ricerca, intenso raffinato profondo, sceglie e addita una forma creativa che ha gambe per camminare nel mondo. Cioè produce lavoro per le attrici e gli attori, e non solo quella cultura che non si mangia, resa paradigmatica dall’ex ministro Tremonti. È quindi molto lontana da un’idea di produzione culturale parassitaria, astratta e sufficiente a se stessa. Pensiamo che sia un esempio e una materia di importante riflessione per le artiste e gli artisti, e per tutte e tutti coloro che plasmano con le proprie scelte le politiche culturali delle istituzioni di cultura: scuole, musei, teatri, biblioteche.
Per noi, che siamo programmaticamente di parte, questo potrebbe essere uno dei portati principali del teatro e della produzione culturale femminile: una cultura che rilancia il ruolo delle donne, le incoraggia a prendere la parola, le premia, ma non dà loro solo dignità, non promette loro soltanto solidarietà in qualità di vittime, ma costruisce professionalità remunerate e rispettate nel mondo.
Come la tua, cara Emma.
La piéce: A vedere Le sorelle Macaluso, non si sta comode, e non certo per colpa delle poltrone del Piccolo, ma perché il teatro, per come lo vivi tu, Emma, è il luogo della riscoperta di sé e della (ri)scrittura del mondo. Quello dietro alle nostre palpebre. È certo una bella notizia di questi giorni la riapertura della sala teatrale del carcere minorile Beccaria di Milano grazie al lavoro della Direttora Nuccia Micciché e al contributo, fra gli altri, del Piccolo teatro e del Teatro alla Scala. Un nuovo teatro che è un vanto per la nostra città perché – e il tuo metodo di lavoro lo dimostra – chi entra in un teatro, torna in sé stessa/o, rivede i propri valori, scopre un nuovo punto di vista sulle cose.
Fra non molti giorni ricorderemo i nostri cari, parenti e amici defunti. È una buona occasione per vedere o rivedere Le sorelle Macaluso, perché in questo lavoro, ci fai sentire come le nostre famiglie siano da sempre e per sempre sedute a uno stesso tavolo. Tutte e tutti insieme, vivi e morti, pronunciamo parole di rancore, odio e colpa, ma anche perdono, amore, fiducia, purezza. Forte come la morte è l’amore dice il Cantico. Il teatro della tua tragicità classica ritrovata non può che parlare tutte le lingue di Palermo, regina degli idiomi mescolati, caput et splendor del policentrico impapocchiato sud d’Italia. Assistere a uno spettacolo di danza e di anima come Le sorelle Macaluso è vedere per un momento il mondo con i tuoi occhi, Emma, ed è ritornare alle radici del nostro essere donne. E donne del sud.
La femminilità: fin dal quadro di esordio dello spettacolo, il corpo e-straniato della marcia e il corpo soggettivizzato della danza, associati, ci aprono i sensi e ci predispongono a un percorso nella carnalità. Non c’è parola che non sia furiosamente pronunziata in congiunzione con un corpo che suda, sputa e stride. Suono inarticolato, risata, movimento, tutto concorre a creare un teatro di materia, solenne e mortale, straziante e grottesco. Il tuo teatro, Emma, si sente con le pelvi, i pori della pelle e il vuoto delle orbite. È ascolto intraosseo.
Avere un corpo è mutare, è sentirsi donne e uomini insieme, è pensarsi mortali. Ed è la congiunzione degli opposti a far sì che morire sia sollevarsi per essere finalmente se stessi e l’esperienza di solitudine estrema sia riabbracciare coloro che da sempre e per sempre ci hanno amate/i e sorrette/i.
Cara Emma, grazie a te e alle attrici e agli attori che fanno vivere questo spettacolo.
Loredana Metta e Fabio Lucchetti
lartediparte@gmail.com
P. S.
Preghiamo di considerare il tu rivolto a Emma Dante in questo articolo una forma di rispetto, e non un’inopportuna e non voluta confidenza.
Dopo la lettura di questo articolo vi consigliamo la visione di Tammurra muta di Valeria Cimò