… in tutta l’evoluzione umana.
di Giancarlo Livraghi – ottobre 2011
ABSTRACT dell’articolo pubblicato nel numero 19 (ottobre 2011)
della rivista l’Attimo fuggente
Per superare ostacoli e risolvere problemi occorre un cambiamento di prospettiva che sgombri il terreno da manie e ipocrisie, elimini inutili complicazioni e dissensi, ci aiuti a capire meglio la realtà.
È un argomento importante. Dovrebbe essere piacevole, interessante, stimolante, affascinante. Ma c’è molta confusione. Gli imperversanti dibattiti sul ruolo delle donne sono complicati, spesso inconcludenti, frequentemente contorti, banali, ripetitivi – e noiosi. Sembrano tutti basarsi su una premessa apparentemente semplice. E sostanzialmente sbagliata.
Le donne, si pensa e si dice, sono sempre state oppresse da una cultura inesorabilmente maschilista. Si presume che, fin dalle origini dell’umanità, fosse quella la loro invariabile condizione. E che solo dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, quando le “suffragette” cominciarono a mobilitarsi per il diritto di voto, ci sia stata per la prima volta un’evoluzione verso la parità – ovviamente non solo giuridica, ma anche sociale, civile e culturale.
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Se la condizione delle donne fosse “da sempre” sacrificata e repressa, sarebbe tutto molto difficile. Sradicare una malapianta dominante da duecentomila anni (o più di due milioni, se la considerassimo intrinseca agli “ominidi” da cui discendiamo) sarebbe un’ardua impresa. Ma, con meno pregiudizi e con un’interpretazione meno superficiale del processo evolutivo, il problema si può capire (e risolvere) in una prospettiva diversa.
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Molte discriminazioni, dichiarate o nascoste, continuano a imperversare – ma è sempre più difficile far credere che possano avere qualsiasi legittimità o giustificazione.
Insomma è tutto chiaro? Dobbiamo davvero credere che dopo duecento (o duemila) millenni di ininterrotto maschilismo dominante, solo da un secolo e mezzo si sia cominciato a capire che il ruolo delle donne può essere diverso?
Se così fosse, dovremmo essere entusiasti dei risultati già raggiunti in tempi brevissimi rispetto al percorso dell’evoluzione umana. E dirci che ci vorrà ancora molta ostinazione per andare contro quella che (si suppone) è sempre stata una tendenza dominante. Due, tre, forse dieci generazioni per poterci avvicinare a un nuovo equilibrio.
Ma non è così. Perché la storia è un’altra. Per cominciare, è necessario allargare un po’ la prospettiva. Le differenze di sesso, o di genere, non sono una particolarità della specie umana. Nell’infinita varietà dell’evoluzione biologica, ci sono innumerevoli differenze di ruolo. Con maschi dediti a compiti che a noi sembrano femminili – e viceversa. Nulla nelle radici della vita impone rigidi o costanti modi di realizzare ed equilibrare le “necessarie diversità” fra maschi e femmine. Ciò che è diverso, nel genere umano, è il modo in cui i ruoli si definiscono.
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Quando Margaret Mead, ottant’anni fa, studiava le culture matriarcali in Polinesia, dove i bambini (maschi e femmine) crescevano in “collegi” governati solo dalle donne, constatava la necessità di un “ruolo maschile” – che, escluso per motivi gerarchici il padre, era affidato a uno zio materno.
Non è un fenomeno “eccezionale”, solo di alcune particolari strutture sociali. È un’esigenza diffusa in tutte le culture. Anche indipendentemente dalla psicanalisi, è un fatto che nella vita di ogni essere umano il “ruolo paterno” è incarnato, in vari periodi e situazioni, da persone diverse.È altrettanto vero per il “ruolo materno”. Così è sempre stato. Perciò non è “nuovo” che le donne possano avere ruoli che solo l’abitudine definisce maschili. E viceversa.
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Nei suoi approfonditi studi di mitologia, Robert Graves nel 1948 tracciava l’affascinante percorso della Dea Bianca, fortemente presente fin dall’inizio dei culti più antichi. Poi stranamente rimossa, in tempi più recenti, dalla intollerante prepotenza di divinità maschili, come quella che continua a imperare nei più diffusi monoteismi. (Anche se nessuno dei profeti ha mai assegnato alle donne un ruolo così avvilente come quello imposto da alcuni dei loro degenerati seguaci).
Insomma il “maschilismo” non è nelle radici della natura e cultura umana.
È un’ingombrante sovrastruttura che si è diffusa negli ultimi due millenni. Un tempo molto breve nella nostra evoluzione. È venuto il momento di chiudere quella degradante parentesi, più che mai intollerabile nel mondo di oggi e di domani.
E allora… in conclusione… oggi, le donne? Dal quadro che ho cercato di tracciare mi sembrano evidenti alcune deduzioni. Ci sono due fatti fondamentali di cui dobbiamo tener conto. Apparentemente contrapposti, in realtà complementari.
Uno sta nelle radici della nostra specie, fin dalle origini. Il ruolo delle donne non è mai stato solo quello di allevare figli e “badare al focolare”. E neppure gli “uomini del paleolitico” sono mai stati simili a un immaginario buzzurro armato di clava, in atto di trascinare per i capelli una donna più perplessa che spaventata. Quei personaggi esistono solo in vignette o barzellette di discutibile comicità. C’è sempre stata una più complessa – e più funzionale – distribuzione e condivisione di compiti e attività. (Su questo argomento vedi anche Le donne e la rete).
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Il fatto è che oggi tutti, uomini e donne, abbiamo possibilità e responsabilità superiori a ogni immaginabile ipotesi del passato. Discriminazioni e repressioni, che sono sempre state perverse, oggi diventano insostenibili. La parità (e condivisione) di diritti e doveri, di ruolo e di impegno, non è solo una fondamentale esigenza morale e civile. È una necessità di sopravvivenza.
Non c’è tempo da perdere. E perciò è importante capire quale prospettiva ci può aiutare a trovare soluzioni prima che sia troppo tardi.
Se dovessimo sradicare discriminazioni e fobie insite nella natura della nostra specie, sarebbe molto difficile arrivare a risultati concreti prima che le tendenze retrograde degenerino in conflitti catastrofici.
Per fortuna non è così. Se barriere o distinzioni di ruolo potevano avere un senso quando usavamo strumenti che richiedevano particolari risorse fisiche, oggi i motivi di differenza sono scomparsi. Contano le capacità mentali e culturali, la volontà e l’impegno.
In un paese come il nostro la condizione femminile è già, in molte cose, migliorata. E tutti sono d’accordo (o almeno dicono di esserlo) che occorre andare avanti fino alla parità completa. Se per progredire dovessimo nuotare contro corrente, sarebbe un compito da affrontare con caparbia ostinazione, forse anche con asprezza e ostilità. Ma la realtà è un’altra.
I pregiudizi e gli ostacoli, anche quando sembrano massicci e trionfanti, sono strutturalmente fragili. Non occorre demolirli con un ariete, né attaccarli con violenze o esagerazioni che suscitano fastidio e perplessità, complicando inutilmente lo sviluppo. È più efficace rosicchiare le loro goffaggini, approfittare delle loro sciocchezze, spingerli verso l’estinzione senza dubbi e senza tolleranza, ma anche senza rabbia. Con la forza dei fatti più che con il chiasso delle polemiche.
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La soluzione, ovviamente, non è un generico e compiacente “vogliamoci bene”. Dissensi e discussioni, preoccupazioni e allarmi, hanno un ruolo indispensabile. Ma il fatto irritante e deprimente è che troppo spesso ci si perde in chiacchiere, con la noiosa e inconcludente ripetizione di insulsi pregiudizi e preconcetti (o di generiche, divaganti “buone intenzioni”). Questa non è solo una fastidiosa perdita di tempo. È anche un ingombrante ostacolo alla comprensione (e perciò alla soluzione) dei problemi.
Il vero, pericoloso nemico è il potere della stupidità. Che imperversa senza distinzione di genere, etnia, origine o cultura. Questo si, è un male antico, radicato fin dalle origini, non solo della nostra specie, ma probabilmente in ogni forma di vita. Non è con la stizza o con lo scaricabarile che possiamo ridurre i danni. È solo con la lucidità di capire dove e come il malefico mostro si nasconde.
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