Un tempo anche noi mangiavamo “sacro”. C’erano restrizioni alimentari, digiuni, cibi permessi e vietati che scandivano il tempo liturgico.
di Gianna Melis
Poi, l’Italia si è secolarizzata ed è perfino arrivato il Concilio che ha allentato la disciplina alimentare dei cattolici, tanto che Giorgio Gaber poteva cantare “e se al venerdì mangiare pesce ti secca, puoi farti una bistecca”. Ora la società è multietnica e multireligiosa e di persone che mangiano seguendo una fede, anche se non la nostra, ce ne sono molte. La vera sorpresa è che per moda o per strane convinzioni salutistiche, molti italiani sono affascinati dal cibo preparato secondo i principi induisti o buddisti oppure seguendo la Torah o il Corano. Forse con la speranza che abbia effetti benefici sul corpo e sull’anima.
La “cucina della fede” con le sue ragioni e i suoi riti, è comunque un’occasione per scoprire arti culinarie di grandi tradizioni, ricche di aromi, spezie e colori di altri latitudini. Gli ebrei hanno piatti diversi per ogni festa, la cucina degli induisti è vegetariana, i musulmani dopo il digiuno del ramadan si consolano con i dolci. I cristiani hanno meno vincoli e possono mangiare i piatti di tutte le religioni senza commettere peccato.
La cucina ebraica rispecchia la storia del suo popolo che ha vissuto in ogni paese del mondo: cous-cous, falafel e shwarma tipici della tradizione nord-africana, schnitzel e goulash del nord Europa. Tutti sono uniti dal rispetto della kasherut, norme molto precise che si rifanno alla Torah, la sacra Bibbia. Ogni ricorrenza ha i suoi piatti e i suoi riti: per Shabbath, il sabato, è d’obbligo l’hallà, la treccia di pane dolce, gli stufati cotti a fuoco lento, il gefilte fisch, la carpa ripiena ashkenazita oppure le borekas e pastelikos, paste ripiene sefardite. Frittelle dolci ripiene, “le tasche di Haman”, sono tipiche per la festa di Purim, il carnevale, mentre a Pesach, la Pasqua ebraica, oltre alle matzot, il pane azzimo, non mancano le erbe amare e l’uovo, il riso con le fave, le matzo balls in brodo e poi tanti dolci non lievitati, fatti con fecola di patate o cioccolato. Il pasto di Rosh ha-Shanà, il capodanno, inizia con un frutto nuovo di stagione e prosegue con melograno e fichi che simboleggiano dolcezza, benedizione ed abbondanza.
Come per gli ebrei, i musulmani consumano solo “cibo puro”, e anche in Italia molti negozi vendono carne macellata ritualmente e cibi preparati secondo le regole halal. Il rito più suggestivo delle feste musulmane è quello del “ramadan” , il mese di Dio, che impone il digiuno dall’alba al tramonto. Al calar del sole però, i musulmani festeggiano con cous-cous e zuppe, come l’harira con piselli, montone, cipolline, lenticchie e zafferano insaporiti con la piccantissima harisa, salsa di peperoncino. Al termine frutta, datteri e tanti dolci, dalla chebakia, un impasto di farina fritto e poi ricoperto di miele, al sellou, con farina, mandorle, sesamo e zucchero. Accompagnati da thè alla menta, succhi di frutta, latte o caffelatte.
I piatti dei buddisti sono leggeri, senza aglio, cipolla e spezie. La cucina si chiama shojin-ryori, traducibile come “cucina della devozione”, attenta alla giusta armonia fra ciò che i buddisti definiscono i sei sapori di base: amaro, acido, dolce, salato, leggero e caldo. Il risultato è un insieme di piacevoli bocconcini con aromi delicati, in un mix di semplicità, raffinatezza e consistenze. Ogni pasto è un rito, una cerimonia collettiva, che inizia con l’omaggio del cibo al Buddha. La dieta quotidiana è leggera, tendenzialmente vegetariana, fatta di due ciotole di riso, una zuppa e qualche verdura, frutta e tè. In occasione di feste, il tenzo (cuoco del monastero) prepara qualcosa di più elaborato, sempre però con verdure di stagione, semi, frutta secca e derivati della soia, con molte variazioni di tofu. In genere, i buddhisti tollerano l’uso della carne, ma solo se chi la mangia non ha partecipato all’uccisione degli animali.
L’induismo non è solo una religione, ma un modo di essere e di comportarsi. I praticanti condannano l’uccisione di qualsiasi animale la cui vita è sacra e seguono una dieta esclusivamente vegetariana. Come in altre religioni sono vietate le bevande alcoliche perché l’ebbrezza sottrae all’uomo il controllo del suo corpo. Ogni cibo deve essere prasada, cioè cucinato con devozione per Dio, che prende il nome di Krishna. Ogni pasto è diverso a secondo della casta, ma la maggior parte degli induisti consuma pasti a base di riso, verdura e frutta, conditi con la salsa “chutney”. L’intoccabilità dei bovini, animali sacri, ha portato alla creazione di un’infinità di ricette, insaporite con spezie di tutti i tipi.
E noi italiani? Compriamo carne halal dal macellaio marocchino all’angolo, curry e strane radici al mercatino indiano, cerchiamo di seguire i dettami del kasher, strattonati tra vegetarianismo, diete anti-intolleranze e digiuni salutistici. Ma in fondo, rimpiangiamo le nostre devozioni gastronomiche strapaesane: giovedì gnocchi, venerdì pesce e la domenica di pasqua finalmente la tavola con abbondanza di tutto. Una “fede” in cui ci riconosciamo davvero tutti.