Le aziende italiane devono cominciare a parlare “internazionale” sia in termini culturali che linguistici
Difficile da pronunciare quasi come il vulcano islandese Eyjafjallajökull e neppure facile a farsi.
Intanto diciamo che per parlare di Internazionalizzazione bisogna distinguere:
- Vendere all’estero
- Produrre all’estero
- Cercare partner o soci internazionali
Quindi parliamone in 3 puntate distinte.
La cosa vera è che c’è un fattore comune, un leit motiv di fondo, sia che 1.2.3 siano tutti attivi sia che si intraprenda una sola delle 3 strade, in ogni caso le aziende italiane devono cominciare a parlare “internazionale” sia in termini culturali quindi anche linguistici, ma non solo:
- Organizzativi
- Stilistici
- Comportamentali
Detto questo, che è un bell’impegno, oggi parliamo di Vendere all’Estero.
Se non fossi italiana cercherei un elenco di motivazioni articolate e complesse, ma per fortuna siamo italiani.
Quindi abbiamo un vantaggio competitivo che altri se lo sognano: “Made in Italy”. Si, proprio quella specie di etichetta oggetto spesso di lunghi dibattiti sui confini o sull’estensione di questa definizione, che fa del prodotto italiano un prodotto di pregio e soprattutto percepito come tale da tutto il mondo.
Questo vale sia per i brand noti al grande pubblico, proprietà di grandi aziende o gruppi industriali, sia per quei prodotti meno noti, addirittura quei componenti che mai avranno nome proprio all’interno di filiere produttive. Nel tessile anche il filato Made in Italy ha un grande valore, e un’azienda storica e ancora familiare come la CuciriniTreStelle è leader di mercato. Ma chi non cuce a macchina non la conosce, eppure la maggior parte degli abiti che indossiamo si tiene su, come direbbe la mia nonna che a macchina imbastiva cuciva e vestiva le mie bambole, grazie a un filo Cucirini.
Detto questo non è automatico vendere all’estero.
Ancora la maggior parte delle PMI italiane (circa 9 milioni di aziende), va all’estero per sentito dire, si fa trascinare da miti mediatici (tutti in Cina, evviva il Brasile…!), oppure da missioni internazionali spacciate per opportunità commerciali che si riducono in trasferte oltre oceano accompagnati da qualche funzionario e da un paio di interpreti, costose e improduttive. Finiti gli zii d’America tirati fuori dal cassetto o spuntati durante un banchetto di nozze del cugino della mamma (quel signore distinto che vive all’estero da anni e ha un bel ristorante, dice che conosce tutti e ha promesso di portare i nostri prodotti con lui), qualche volta si intraprende la via delle Fiere. I costi sono esorbitanti se si decide di investire con una presenza in loco, parlo di realizzazione di uno stand, di produzione di materiali di comunicazione in lingua, di viaggio vitto e alloggio per un team di persone, del costo di una o più hostess/interpreti e se tutto questo si può affrontare, bisogna valutare i risultati. Un bel pacco di biglietti da visita? Magari in Kazako o Mandarino, tornati in Italia cosa ne fanno gli imprenditori italiani? Li guardano con ammirazione e lasciano che si impolverino sulla scrivania perché creare il contatto e gestirlo presuppone tempo e competenza, soprattutto se l’obiettivo è vendere.
Suggerimenti?
Chiamatemi.
Scherzo. Ma neppure tanto.
Ci sono sistemi, metodi e specialisti delle vendite all’estero.
Diffidate degli specchietti per le allodole. Di tutti quegli studi di consulenza che vogliono vendervi consulenza teorica perché vendere all’estero è cosa per “uomini” (nel senso di persone, eh) pratici e seri.
Si tratta di utilizzare dati “scientifici” per conoscere i vari mercati, per capire chi già importa il prodotto che vorremmo esportare, si tratta di individuare e conoscere i prospect, di contattare in modo adeguato e “internazionale” gli interlocutori diretti, e poi di fare una trattativa commerciale che tenga conto di tutte le variabili, senza escludere il pricing, il posizionamento sullo “scaffale” di quel paese, senza trascurare di fare comunicazione attraverso il packaging o gli strumenti di lavoro da fornire ai business partner esteri per trasferire loro quel know how necessario a fare o gestire il mercato locale. SI tratta di essere capaci di generare offerte commerciali su misura, quindi di conoscere tecnicismi e termini legali, di essere aggiornati sugli accordi intra ed extra comunitari.
C’è in Azienda qualcuno pronto a gestire tutto questo e soprattutto a fare in modo che non si alteri la governance aziendale a favore di una realistica improvvisazione?
Nelle Aziende strutturate si.
Ma parliamo di start up, o di piccole medie imprese.
Qui serve gente che sa il proprio mestiere e che lo faccia con dedizione e continuità perché anche questo è made in Italy.
Racconto sempre dei vasetti di marmellata bloccati alla dogana cinese perché il produttore aveva deciso all’ultimo di valorizzare l’involucro delle confezioni, insomma il packaging, utilizzando non la solita plastica ma un legno che in Cina non è ammesso. Lavoro buttato, prodotto alimentare fermo, disagi.
Sono errori di inesperienza che però costano cari.
Dove vendere, cosa?
A chi vendere?
Come fare?
Sono domande che possono avere risposte certe e soprattutto sono domande a cui nessuna impresa italiana dovrebbe più rinunciare. Ormai vendere dovrebbe essere per il 70% Export.
Se volete sapere come si fa, io un’idea ce l’ho. Anzi più di un’idea. Ho un sistema