di Cinzia Ficco
E’ solo guardando all’altro in modo qualitativamente diverso, nel rispetto della sua e della nostra differenza, che si potrà costruire un modo di pace.
“L’altro interrompe il sistema di rinvii nel mio mondo; ne apre l’orizzonte, ne interroga la finalità. In quanto tale, l’altro disfa la familiarità che mi era propria. Egli è sempre l’estraneo che varca i limiti del mio territorio e disturba le mie abitudini. Il mio primo gesto sarà dunque di rifiuto, di rigetto, al massimo d’integrazione o assimilazione. In ogni caso , di abolizione dell’alterità dell’altro, della sua differenza” .
E’ quanto scrive a pagina 99 Luce Irigaray, filosofa e psicologa, nel suo libro ”Condividere il mondo”, edito da Bollati Boringhieri, un invito ad una sorta di trascendenza orizzontale. L’autrice spiega come, prima di cercare la trascendenza in qualche ideale soprasensibile, che non corrisponde alla nostra totale e universale sia necessario rispettare quella dell’altro, qui e vicino a noi, cioè la sua irriducibile alterità. E’ solo guardando all’altro in modo qualitativamente diverso, nel rispetto della sua e della nostra differenza, che si potrà costruire un modo di pace.
Si legge ancora: “Qualcosa, o qualcuno, in me, è attratto verso questo estraneo a me. Qualcosa, o qualcuno, che ha luogo nel più intimo di me – più familiare forse a me stesso della familiarità che provo per il mio mondo. C’è, in me, qualcuno che aspira all’altro come condizione del vissuto di un’intimità che non conosco ancora. Questo volere l’altro, la venuta e l’incontro dell’altro all’interno dell’orizzonte del mio mondo, dei miei confini più propri e interiori, si chiama desiderio. Nessun mondo, per quanto compiuto e futuro sia, dovrebbe ridurre o estinguere il desiderio per l’altro”.
Per Irigaray il desiderio ci costringe a un progresso nel divenire della nostra umanità. Ci chiede di superare le dicotomie corpo-spirito, movimento esterno-movimento interno, unità – dualità. Una cultura del desiderio esige da noi che si possa mettere in questione il nostro mondo senza tuttavia rinunciarvi. La ricerca dell’altro implica l’aprirmi a un altro essere, che impedisce al mio mondo di chiudersi in una totalità inglobante l’insieme degli enti. “Colui o colei – scrive- cui così mi apro resta incomprensibile e tale apertura all’altro mi rende ugualmente incomprensibile a me stesso, pur essendo un disvelamento di ciò che o chi sono. Tale disvelamento è di natura trascendentale”.
L’altro, fa capire la filosofa, è a suo modo un futuro presente nel presente, privo di passato in questo presente. “L’altro- chiarisce- non può fare parte del mio passato. L’altro deve restare trascendente rispetto ad una temporalità propria, la sua memoria deve mantenere un possibile difuori o aldilà rispetto a qualsiasi appropriazione.
Dunque, vitale è per ciascuno di noi la relazione con l’altro. Grazie al rispetto della trascendenza dell’altro come irriducibile alla propria , ciascuno scopre, in ogni momento, un nuovo slancio verso l’in-finito o infinito mediante il riconoscimento della finitezza del proprio mondo.
L’in-finito può ridivenire l’orizzonte del progetto di ciascuno grazie all’accettazione che la percezione della totalità del mondo, che è la sua è, essa, necessariamente finita. “Ogni soggetto- scrive ancora- è investito da quell’esistente che è l’altro. L’altro ci obbliga pure a prendere su di noi il negativo ossia darci dei limiti per lasciarlo essere come altro. Ma l’altro ci apre la possibilità di una nuova epoca del nostro divenire soggettivo e della nostra cultura”. Inutile quindi cercare verità fuori del rapporto con l’altro. “Il sé dell’uomo, ci ricorda la pensatrice, si riceve prima da un altro che, avvolgendolo, gli resta impercettibile come altro: sua madre. La madre, e poi la donna, restano assimilate a un mondo solo naturale da cui è necessario emergere per diventare uomo”.