Le famiglie di fatto stanno assumendo un ruolo sempre più significativo nella realtà sociale del nostro paese.
Le coppie giovani o quelle ricomposte, a seguito di una separazione e di un divorzio, preferiscono instaurare una convivenza, anzichè consacrare l’unione, attraverso la celebrazione di un matrimonio, civile o religioso che sia.
Com’è noto, in Italia, la famiglia di fatto non è regolamentata, non gode di una sua tutela giuridica, per cui i conviventi, anche dopo anni di condivisione di un percorso comune, nulla possono chiedere, l’uno all’altro, nonostante abbiano dedicato la propria vita alla cura della famiglia. Diverso è il caso dei figli nati in costanza di convivenza, ma non è un argomento che verrà trattato in questa sede, se non per segnalare che la tutela dei figli naturali (affidamento, mantenimento, ecc.ecc.) è rimessa alla competenza del Tribunale per i Minorenni.
Sebbena la convivenza non sia regolamentata, ciò non vuol dire che non nascano, negli anni, rapporti di dare e avere, che si traducono, poi, una volta cessata la relazione, in aspettative giuridiche, spesso di natura economica.
Durante il rapporto, i partner non pensano che la loro convivenza possa un giorno terminare, essere interrotta dalla sopravvenienza di una crisi irreversibile, che, purtroppo, modifica anche la reciproca disponibilità psicologica e da una relazione amorosa si passa ad un rapporto processuale, insomma ad una vera e propria causa.
Quando si convive spesso i partners si cointestano conti correnti nei quali confluiscono le risorse economiche di entrambi, che vengono utilizzate per i fini più diversi, intestano case a nome di uno solo dei due, nonostante gli sforzi economici appartengano ad entrambi, oppure uno dei due si fa carico del pagamento dei ratei di mutuo, relativi all’immobile di proprietà dell’altro.
Altre ipotesi frequenti riguardano i regali di un certo valore che si sono scambiati l’un l’altro, oppure i soldi spesi per i mobili o per la ristrutturazione, a beneficio dell’appartamento intestato al destinatario delle elargizioni.
Sono, in particolare le donne che devono prestare attenzione a tali modalità di svolgimento del rapporto. In genere, purtroppo, sono ancora, all’interno del rapporto, il lato più debole economicamente, pertanto sono coloro che ricevono una qualche elargizione, salvo poi, cessata la convivenza, si vedono non solo prive di tutela, ma anche destinatarie di richieste di restituzione di beni mobili o di denaro.
E’ ciò che accade a Paola; durante il rapporto sentimentale, instaurato con Roberto, si trasferisce a vivere nell’appartamento di proprietà dei genitori, che viene ammobiliato a spese del compagno.
A seguito della brusca interruzione del loro rapporto, Roberto si è rivolto al Tribunale ed ha dedotto che la cessazione della convivenza era dovuta ad un comportamento colposo della compagna, per cui ha chiesto la condanna al risarcimento del danno (per perdita di prospettive di carriera e stress psicofisico), ai sensi dell’art. 2043 c.c. e per l’ingiustificato arricchimento, generato dall’acquisto degli oggetti di arredamento.
Dopo il rigetto delle domande, da parte del Giudice di primo grado, la Corte di Appello ha condannato l’ex compagna al pagamento della somma pari all’intero valore di acquisto dei beni (considerandoli come nuovi).
Si è poi pronunciata la Suprema Corte di Cassazione che ha ribadito l’esistenza del principio di “ingiustificato arricchimento”, da parte di chi ha ricevuto elargizioni durante una convivenza, anche se entro determinati limiti.
I requisiti per esercitare l’azione di ingiustificato arricchimento sono il godimento di beni da parte di un soggetto a danno di un altro, senza una giusta causa, l’impoverimento da parte di chi ha elargito beni, l’impossibilità di esercitare altro tipo di causa per la restituzione di quanto si è dato. Insomma, si verifica l’ingiustificato arricchimento quando i patrimoni di due soggetti subiscano una modifica, senza una ragione giustificatrice dell’impoverimento da una parte e di un maggior benessere dall’altro.
A fronte di tale contesto, la Cassazione ha così ragionato: sussiste il presupposto per l’azione di ingiustificato arricchimento da parte di chi abbia convissuto more uxorio, quando si è in presenza di un vantaggio dell’altro convivente che superi il beneficio derivante dall’adempimento delle obbligazioni naturali nascenti dal rapporto di convivenza, esorbitando, in tal modo, dai limiti di proporzionalità e adeguatezza.
Secondo i Giudici di legittimità, le obbligazioni tra conviventi rappresentano adempimento di doveri di carattere morale e sociale e di reciproca assistenza, si potrebbe argomentare a contrario che, come nel caso in esame, se tali prestazioni rese da un convivente a vantaggio dell’altro esorbitano dai limiti di proporzionalità, allora si avrà, inevitabilmente, un ingiustificato arricchimento di un convivente con pregiudizio dell’altro.
Tale valutazione andrà parametrata, secondo i Giudici di legittimità, in relazione alle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto, sulla base di un accertamento di fatto delle reciproche consistenze reddituali e patrimoniale degli ex partner.
Insomma, per la Cassazione ci può essere un ingiustificato arricchimento a favore del compagno nell’ipotesi in cui tali prestazioni siano derivate dall’acquisto di mobili e arredi in considerazione di una vita in comune e che a causa della rottura della relazione, seppur di proprietà dell’acquirente–impoverito (Roberto), sono rimasti in godimento del convivente-arricchito (Paola).
Questo tema, da anni all’attenzione dei Giudici, per i continui contrasti che sorgono al momento della cessazione di un rapporto di convivenza, non sembra possa essere risolto sulla base del ragionamento della Cassazione.
Le questioni attinenti al diritto di famiglia, anche di fatto, vanno anche valutate e risolte non già sulla base della fredda e asettica interpretazione ed applicazione di norme di diritto o di ragionamenti riguardanti solo una tecnica giuridica.
Le decisioni dei Giudici si rivolgono e trovano applicazione nei confronti di donne, bambini, soggetti fragili; tali decisioni riguardano la vita intima di persone già provate negli affetti, nel fallimento di importanti progetti di vita. E’ un diritto che si rivolge alla società, alle persone e deve, quindi, tener conto del contesto familiare, delle persone piu’ fragili, piu’ esposte economicamente, non è giusto disporre “condanne” nei confronti di chi già non riceve tutela dalla legge italiana.
Le donne, però, devono conoscere queste realtà giudiziarie, perché possano prevenire eventuali sentenze di segno negativo mediante “convenzioni” destinate a regolare il rapporto con il partner, prima del momento patologico, rappresentato dal momento della crisi della convienza..
La prevenzione non è un concetto che appartiene solo alla scienza medica, per cui sarebbe bene tutelarsi per tempo, anche se il rapporto di convivenza, all’inizio, sembra aver un buon futuro.
La famiglia di fatto, purtroppo, non riconosciuta dal nostro ordinamento, subisce un ulteriore attacco dalla decisione sopra riportata: si giunge all’assurdo che determinate elargizioni, se fatte durante il matrimonio, mantengono la stessa destinazione, se fatte fuori dal matrimonio possono determinare la chiamata in causa per ingiustificato arricchimento.
Non solo.
Alcuni progetti di vita in comune comportano anche la decisione di spese destinate all’acquisto di beni funzionali alla famiglia, trovano la loro causa proprio nell’orga-nizzazione di una comune quotidianità, che costituisce la base di un comune sentire. In considerazione del momento e del contesto morale e sentimentale (assolutamente da tutelare e salvaguardare) in cui il nucleo fa alcune scelte, o investe del denaro, è assolutamente contrario ai principi basilari di tutela della persona, condannare poi uno dei partner, al pagamento di una somma, se, con il tempo, la relazione viene meno.
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