Indagine nell’Italia nella quale i legami tipici famigliari si vanno sempre più allentando e lasciano dietro di sè tante solitudini. Specie tra le donne che vivono sole. E sono invisibili al contesto sociale.
L’indagine è condotta ed esposta nel suo libro “Una casa tutta per sé” da Graziella Civenti , professoressa a contratto presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’ Università Milano-Bicocca e funzionaria dell’Assessorato al Welfare della Regione Lombardia, dove si occupa di psichiatria e neuropsichiatria infantile. Ha curato numerose pubblicazioni sul lavoro sociale e sui temi della ricerca epidemiologica e della valutazione dei servizi.
L’indagine è stata condotta intervistando 250 donne (140 tra 45 e 65 anni e 110 di età superiore a 65) dell’area metropolitana di Milano.
1) In Italia, a Milano, nel mondo, i legami della famiglia tipica si vanno sempre più allentando, a causa di separazioni e divorzi. La donna in questo contesto è l’anello debole. O meglio era, in quanto non lavorava e non poteva sostenersi economicamente. Quanto è cambiato negli ultimi anni questo rapporto?
Guardando i dati del censimento del 2011 si rileva come nell’arco dei dieci anni intercorsi dalla precedente rilevazione sia quasi raddoppiato il numero di persone separate legalmente e divorziate: da 1.530.543 nel 2001 si è passati a 2.658.943 nel 2011.
Ciò che in realtà si rivela essere in continuo aumento non è tanto il numero assoluto di separazioni e divorzi (che per esempio nel 2011 segnano rispettivamente +0,7% e -0,7% rispetto all’anno precedente) quanto il loro tasso: nel 1995 per ogni 1.000 matrimoni si contavano 158 separazioni e 80 divorzi, mentre nel 2011 si arriva a 311 separazioni e 182 divorzi. Tali incrementi, verificandosi in un contesto in cui il numero dei matrimoni diminuisce, appaiono imputabili a un effettivo aumento alla propensione alla rottura dell’unità coniugale.
Le modalità con cui questo fenomeno si manifesta sul territorio nazionale non sono tuttavia omogenee e sembrano indicare un processo di progressiva propagazione dei comportamenti dal nord verso il sud del paese. Questo processo è reso evidente dal confronto tra i dati relativi a regioni appartenenti alle diverse aree geografiche: se si osservano per esempio la Lombardia da un lato e la Sicilia dall’altro si può verificare come esse mostrino gli stessi comportamenti ma con sfasature temporali significative, cosicché, per esempio, la propensione a separarsi nei primi 11 anni di matrimonio mostra valori analoghi nella coorte dei matrimoni celebrati nel 1980 in Lombardia e in quella dei matrimoni celebrati nel 2000 in Sicilia.
Un separato/divorziato su due ha un’età compresa tra i 35 e i 54 anni. L’età media è di 46 anni per i mariti e 43 anni per le mogli in caso di separazione e raggiunge rispettivamente i 47 e 44 anni nei casi di divorzio. Si tratta di valori che negli anni hanno registrato un aumento per effetto sia della posticipazione delle nozze in età più mature sia della crescita delle separazioni con almeno un partner ultrasessantenne, indice quest’ultimo della propensione allo scioglimento anche delle unioni di lunga durata.
Per quanto riguarda la durata media delle unioni, i dati relativi alla ufficializzazione delle rotture coniugali in Italia indicano in 15 anni la durata media del matrimonio al momento dell’iscrizione a ruolo del procedimento per le separazioni e in 18 anni per i divorzi.
La crescente instabilità coniugale appare collegata da un lato all’aumento della scolarizzazione dei partner e dall’altro a quel particolare modello di matrimonio (il ‘matrimonio per amore’) che segna l’inizio della famiglia moderna. “L’utopia nuziale” la definisce Pascal Bruckner (2011), o “l’eccesso delle ambizioni” della coppia tale che “è diventato più difficile vivere in coppia da quando essa ha conservato, tra tutti i suoi compiti, solo quello di conseguire la realizzazione.
Il genere non è indifferente in questi processi, anzi si potrebbe dire con De Rose e Di Cesare (2003) che “lo scioglimento delle unioni non può non essere interpretato in un’ottica di genere, che quindi diventa non una delle chiavi di lettura possibili del fenomeno ma l’unico approccio corretto al problema”.
Infatti se è vero che in generale “più elevato è il livello di istruzione maggiore è il tasso di separazione sia per uomini che per donne”, il rapporto tra livello di istruzione elevato e rottura dell’unione coniugale appare particolarmente significativo per le donne.
Innanzitutto le mogli con un titolo di studio medio-alto (diploma di scuola media superiore e titolo universitario) mostrano una maggiore propensione alla separazione e al divorzio (4,5 per 1.000 contro un valore del 1,7 per 1.000 registrato tra le donne con titoli di studio più bassi) (Istat 2013).
Inoltre pur persistendo una spiccata omogamia che prevede che marito e moglie abbiano lo stesso titolo di studio (due casi su tre), appare “in crescita il numero di coppie nelle quali lei ha istruzione più elevata, anche come conseguenza del fatto che nelle nuove generazioni le donne tendono ad avere tassi di scolarizzazione superiori a quelli maschili. Se, da un lato, tali unioni sono certamente il riflesso dell’allentamento delle norme culturali che sostengono e giustificano la subordinazione femminile al maschile, d’altra parte alcuni studi mostrano che le coppie in cui la donna occupa una posizione di maggiore privilegio rispetto al partner maschile paiono altamente esposte al rischio di instabilità coniugale” (Rosina e Ruspini, 2011). O detto in altri termini “la stabilità delle coppie in cui il marito ha una laurea è maggiore di quelle in cui è la donna a essere laureata”(Rosina e Ruspini, 2011). O detto in altri termini “la stabilità delle coppie in cui il marito ha una laurea è maggiore di quelle in cui è la donna a essere laureata” (De Rose e Di Cesare, 2003).
Si deve considerare inoltre che a prendere l’iniziativa della rottura dell’unione sono più frequentemente le donne. “In quasi il 70% dei casi sono le donne a rompere il legame” scrive Bruckner (2011). “Due volte su tre è la donna che decide la rottura” conferma Kaufman (2000).
Infine più frequentemente degli uomini le donne tendono a non risposarsi dopo una separazione o un divorzio (così come dopo una vedovanza).
Ovviamente perché possano permettersi di rompere un’unione (ed eventualmente decidere di non ricostituirne un’altra) è necessario che le donne dispongano delle risorse materiali per poter provvedere ai propri bisogni e a quelli dei figli minori, se presenti.
Diversamente, se la vita di coppia era caratterizzata da un investimento prioritario o esclusivo della donna nella famiglia (con la conseguente dipendenza economica, ma anche relazionale e identitaria) il rischio della separazione può essere per lei molto elevato.
Non a caso è unanimemente rilevato che maggiore è l’impegno lavorativo della donna e maggiore è il rischio di scioglimento dell’unione (aumentando proporzionalmente all’impegno sia il tempo e l’investimento emotivo dedicato sia, tendenzialmente, le possibilità di autosufficienza economica).
Così come non è un caso che per le donne del Sud Europa (e, sembrerebbe, solo per loro) sia la perdita del lavoro dopo la separazione ad accrescere significativamente la propensione a formare una nuova unione.
2) Nella sua ricerca divide le donne in due fasce d’età, dai 45 ai 65 anni e dai 65 anni in su. Gli atteggiamenti delle une e delle altre sono diversi? Quali soffrono maggiormente la singleness?
Le caratteristiche e gli atteggiamenti dei due sottogruppi si diversificano in ordine a una serie di elementi:
Innanzitutto le donne che appartengono ai due sottogruppi sembrano arrivare alla singleness da condizioni socio-anagrafiche molto diverse.
Si consideri, per esempio, il titolo di studio: la metà delle intervistate ultrasessantacinquenni è in possesso di licenza elementare – 24,5% – o diploma di scuola media inferiore – 24,5%, mentre nella coorte più giovane il 36,4% dei casi ha un diploma di laurea (e il 16,4% percorsi di studi post laurea), circa il 42% ha un diploma di media superiore e solo il 5 % un diploma di scuola media inferiore (nessuna delle 45-65enni ha come titolo di studio la licenza elementare).
Si tratta di un dato molto importante in quanto tradizionalmente il titolo di studio viene assunto come proxy della condizione sociale: esso, infatti, non solo presenta una forte correlazione con altri indicatori di posizione, quali lo stato occupazionale o la classe sociale di appartenenza, ma possiede anche una capacità predittiva superiore a quella di altri indicatori essendo una caratteristica influenzata dalle condizioni sociali di early life, il che fa sì che essa eserciti effetti di lunga durata.
È pertanto legittimo ipotizzare che l’innalzamento del livello di istruzione femminile – che si è verificato negli ultimi decenni – abbia reso più robusto il capitale umano posseduto dalle donne della coorte più giovane. E che ciò possa favorirle, rispetto alle classi di età ultrasessantacinquenni, non solo nell’età produttiva ma anche in quelle successive sia perché le doterebbe di un reddito autonomo e verosimilmente più tutelante, sia perché, per effetto di una più consistente capacità negoziale, potrebbe loro consentire un livello di inclusione sociale più elevato.
Il fatto che nel gruppo ‘più giovane’ si abbia una concentrazione delle osservazioni nelle fasce medio-alte di reddito o, quantomeno, di accesso a risorse di socializzazione e informazione, appare tutto sommato coerente con le attese: è ragionevole, infatti, ipotizzare che vivano da sole le donne che se lo possono permettere.
Questo nel senso che dispongono innanzitutto di un grado di autonomia economica tale da consentire loro di provvedere direttamente alla soddisfazione dei propri bisogni. E, secondariamente, nel senso di essere attrezzate culturalmente a ‘stare’ in una posizione sociale che, sebbene numericamente sempre più diffusa, appare ancora decisamente minoritaria e disallineata rispetto ai valori dominanti.
Diversa anche la condizione anagrafica delle donne appartenenti ai due sottogruppi: nel campione delle ultrasessantacinquenni le vedove corrispondono al 68% delle intervistate mentre le donne che non sono mai state sposate sono poco più del 20%. Poche le separate (3,6%) e le divorziate (3,5%). Ha figli il 67%.
Nel gruppo compreso nella fascia di età 45-65 anni si invertono le percentuali: le intervistate sono risultate essere in prevalenza (63%) anagraficamente single a fronte di un 11% di separate, 21% divorziate e di un 5% di vedove.
Solo circa il 24 % (cioè poco meno di un quarto) ha figli. Tra le donne 45-65enni che non sono mai state sposate ben oltre la metà (69% dei casi) ha avuto precedenti esperienze di convivenza, nella maggior parte dei casi con un partner (in alcuni casi con partner + figli, propri o del partner), ma anche con figli senza partner oppure con amici/amiche (sia con una singola amica/o sia con più amici/amiche). Per circa la metà delle donne con precedenti esperienze di convivenza, inoltre, queste hanno riguardato più tipologie (si può avere, per esempio, convissuto, in fasi diverse del ciclo di vita, con un partner e con amici/amiche).
L’insieme di queste caratteristiche sembra introdurre nella condizione di vivere da sole del gruppo più giovane la dimensione della scelta.
Un’altra differenza significativa tra i due sottogruppi è rappresentata dalla percezione della prevalenza dei vantaggi o degli svantaggi nella propria condizione.
Il 70% delle donne di età 45-65 anni ritiene decisamente prevalenti i vantaggi della propria condizione (valutazione più frequente nelle singles anagrafiche e tra le donne che vivono da sole da più tempo).
Nella coorte più anziana il 42,7% ha indicato una prevalenza dei vantaggi e il 50,9% degli svantaggi.
Osservando la distribuzione delle risposte si può rilevare che nelle età più basse della coorte (65-70 anni) risultano prevalenti i vantaggi mentre mano a mano che l’età aumenta, aumenta anche il numero di coloro che attribuiscono maggior peso agli svantaggi. Vantaggi più frequenti tra le singles (svantaggi prevalenti tra le vedove) e tra le donne con titolo di studio più elevato
La sensibile differenza di valutazione della propria condizione tra le due coorti si presta a diverse letture.
Una prima ipotesi è che andando avanti con l’età si impongano progressivamente disagi – quali quelli legati alle condizioni di salute e /o all’autonomia – che, meno presenti e/o meno invalidanti nelle classi di età più giovani, e sommati a una possibile restrizione sia del mondo relazionale (le reti sociali, e segnatamente quelle extra-familiari, si contraggono) sia degli interessi (con un ritiro da spazi di partecipazione e di attività) lasciano sempre meno presidiata e meno vantaggiosa la condizione delle donne che vivono sole.
Un’ipotesi alternativa è che le donne delle generazioni nate a partire dalla fine degli anni Cinquanta abbiano costruito un capitale sociale più robusto, più articolato, meno focalizzato sulla relazione di coppia rispetto alle generazioni di donne che le hanno precedute e che questo capitale sociale possa costituire un bene che, se alimentato per via relazionale (e l’alta percentuale di donne delle fasce di età comprese tra i 45 e i 65 anni che continuano ad ampliare le loro reti di riferimento sembra testimoniare in questa direzione) potrà prefigurare scenari individuali e sociali differenti.
Differente tra le due coorti anche la composizione delle reti sociali indagata attraverso una serie di domande volte ad appurare a chi le donne si sarebbero rivolte (o si erano già rivolte in passato) per far fronte a una serie di bisogni, quali un’emergenza improvvisa, una malattia grave o comunque disabilitante, la necessità di un prestito importante, il bisogno di supporto emotivo, la richiesta di aiuto per trovare lavoro, ecc. (per ciascuna di queste domande erano proposte diverse categorie di potenziali helper: familiari, amici/relazioni affettive, conoscenti, vicini di casa, colleghi di lavoro, associazioni, servizi sociali e sanitari, servizi privati).
Nel campione di donne ultrasessantacinquenni complessivamente il 55,4% delle richieste di aiuto, in caso di bisogno, sono rivolte ai familiari.
Questo dato differenzia significativamente questa fascia di popolazione da quella più giovane: nella coorte 45-65 anni a rappresentare il riferimento più importante delle intervistate è infatti la rete amicale che viene a costituire una sorta di chosen family .
Ancora una volta le differenze rilevabili tra i due campioni si prestano a una duplice lettura. Da un lato esse potrebbero indicare che con l’aumentare dell’età tende a modificarsi la composizione del personal network con uno spostamento del baricentro dal mondo amicale a quello familiare, come se mano a mano che i bisogni si fanno, o si suppone che si facciano, più impegnativi solo la famiglia fosse in grado di garantire il supporto necessario.
Ma ugualmente tali differenze potrebbero essere ascritte alle diverse appartenenze generazionali (e quindi culturali e sociali) delle due popolazioni rendendo legittimo ipotizzare che la coorte più giovane abbia, e avrà anche nelle classi di età più elevate, comportamenti difformi rispetto alle generazioni che l’hanno preceduta.
La vera scommessa, anzi, sembra consistere proprio in questo: immaginare che il capitale sociale – diversificato, resiliente, supportivo – posseduto dalle donne che vivono da sole nelle classi di età 45-65 anni possa anche nelle età più avanzate, in cui i rischi di riduzione dell’autosufficienza si faranno più presenti, rappresentare la base di un sistema di solidarietà nuovo, fondato sulla spartizione di problemi comuni e sulla reciproca assistenza più che non su un caregiving unidirezionale.
3 ) C’è sempre un maggior numero di persone che preferiscono vivere da sole con relazioni estemporanee. Siamo andando verso questo tipo di rapporto relazionale?
Gli stili relazionali delle donne di età compresa tra 45 e 65 anni sembrano evidenziare una situazione di ‘mobilità’ che non trova riscontro nei percorsi di vita delle donne più anziane e che appare coerente con le caratteristiche della società contemporanea in cui vengono sollecitati i comportamenti e le appartenenze a breve termine e la virtù più enfatizzata è la flessibilità. L’assioma imperante secondo cui niente è per sempre sembra dunque valere, per le donne di questo gruppo, anche per le scelte relative al vivere da soli o meno e contribuisce a configurare percorsi identitari diversificati, fluidi, plurali, con tratti di reversibilità e incertezza sconosciuti alle generazioni precedenti.
Alcuni autori (Bauman, per esempio) considerano questa pluralizzazione come tipica dell’“individualizzata società liquido-moderna”, l’epoca dei ‘pezzi di ricambio’ senza cultura della riparazione, delle relazioni ‘tascabili’, incarnazione della istantaneità e della smaltibilità. “Negli impegni duraturi” osserva Bauman “la razionalità liquido-moderna ravvisa oppressione, nel rapporto stabile una dipendenza incapacitante”. Con questo rimando il sociologo sembra rubricare la odierna instabilità delle relazioni affettive come istinto ‘naturale’ dell’homo consumens che predilige la varietà e la novità (nonché la leggerezza che a esse spera si associ) rispetto all’impegno, e in particolare all’impegno inscindibile, che costituiva l’istinto naturale dell’homo faber: “il consumismo non consiste nell’accumulare beni ma nell’usarli e quindi nello smaltirli per fare posto ad altri beni da usare” (Bauman, 2004).
Se questa analisi coglie indubbiamente e con acume aspetti decisivi di una società governata dai consumi, sembra trascurare tuttavia altri elementi in gioco.
Per esempio non discute quanto di quella complessità sia frutto della ricerca radicale di cambiamento e di autenticità che ha caratterizzato i movimenti degli anni 60-70 (ovvero gli anni di formazione della parte maggioritaria della popolazione 45-65enne coinvolta nella rilevazione) e, in particolare, i movimenti delle donne che mai hanno dubitato che il personale fosse politico e che proprio sul terreno delle relazioni, in primis delle relazioni affettive, hanno speso con forza il valore trasformativo della loro lotta.
Pluralizzazione in quest’ottica richiama piuttosto la nozione di ‘nomadismo’ di Rosi Braidotti (2002) a indicare un processo attraverso il quale vengono tracciate molteplici trasformazioni e molteplici modi di appartenenza il cui divenire dà vita a soggettività multiple, non lineari, non binarie e in costante flusso, aperte sempre a nuovi ‘dislocamenti’ e perciò in grado di ospitare le contraddizioni e i conflitti e di governarli in termini di interconnessioni.
È importante sottolineare che i processi descritti hanno avuto e hanno una valenza non solo individuale/privata ma collettiva/pubblica.
Le generazioni di cui si sta trattando sono, infatti, Generazioni We (secondo la dizione con cui alcuni autori le denominano contrapponendole alle generazioni Millennials nate dopo il 1980 ritenute, non concordemente, Generazioni Me), ovvero generazioni caratterizzate da un forte orientamento al ‘noi’, alla condivisione, alla costruzione di percorsi collettivi e che tale orientamento, nelle fasce socio-culturali intercettate dalla presente rilevazione, potrebbe non essere stato estraneo alla sperimentazione delle forme di convivenza plurali evidenziate.
In questo senso l’affettività erratica che esse esprimono sarebbe da ascrivere non a un individualismo indifferente a una dimensione politica, pubblica ma a una soggettività alla ricerca di modalità di relazione proponibili come alternative ai modelli dominanti.
Questo dato appare confermato anche da altre dimensioni che emergono dall’analisi dei percorsi delle donne 45-65 enni quali, per esempio, un orientamento, particolarmente sensibile, alla partecipazione, alla costruzione di forme di comunanza tese a condividere, nelle modalità più diverse – dal volontariato, all’impegno in associazioni di advocacy, alle attività praticate nei luoghi di aggregazione – competenze, desideri e bisogni che, in questo modo, escono dalla sfera privata e vengono immessi nel territorio dei beni collettivi.
Si tratta peraltro di un dato che la letteratura ha più volte evidenziato: sono principalmente i ‘soli’ (e in particolare le ‘sole’) a costruire comunità. Per esempio le sociologhe statunitensi Gerstel e Sarkisian (2012), utilizzando i dati di due survey nazionali – la National Survey of Families and Households 1992-1994 e la General Social Survey del 2004 – hanno comparato i legami con i parenti, gli amici e i vicini di persone che non sono mai state sposate, di persone ancora coniugate e di persone coniugate in precedenza. La loro analisi mostra che le persone coniugate – a parità di età, titolo di studio, livello occupazionale e reddito – sono meno coinvolte (ovvero meno disponibili ad andare a trovare e a contattare telefonicamente, ma anche a dare supporto emotivo o a fornire aiuti concreti) nelle relazioni con i genitori e i fratelli rispetto alle persone che non sono mai state sposate. Analoghi risultati anche relativamente ad amici e vicini che i non sposati incontrano con maggiore disponibilità e frequenza fornendo, quando necessario, aiuto pratico e/o supporto emotivo più di quanto non facciano i coniugati, in particolare i coniugati senza figli che, nuovamente, risultano essere la categoria più penalizzata sotto il profilo delle connessioni sociali.
Questo dato sembra bilanciare e complessificare la lettura dei processi in corso suggerendo la necessità di seguire percorsi di approfondimento aperti e non dicotomici.
4) Sono maggiormente le giovani a cercare una vita da single o le più anziane che dopo varie relazioni preferiscono vivere per se stesse?
E’ difficile dare una risposta univoca
In parte è opportuno richiamare la presenza nel gruppo delle 45-65 enni di una dimensione di scelta molto più marcata che nel gruppo delle donne più anziane. Anche se è vero che le età più giovani (45-49 anni) di questa coorte mostrano una propensione più elevata rispetto alle età successive a desiderare di modificare la propria condizione di singletons a favore della convivenza con un partner (Il termine singleton è stato coniato dal sociologo statunitense Klinenberg per indicare le persone che vivono da sole. Esso non coincide necessariamente con la condizione di single che indica piuttosto l’assenza di una stabile relazione affettiva: si può infatti vivere da soli ma non essere single o viceversa essere single ma non vivere da soli).
Sappiamo inoltre che più a lungo si vive da sole maggiormente se ne apprezzano i vantaggi e meno si è disponibili a modificare la propria condizione. Non a caso (alla domanda se –potendo – sceglierebbe di modificare la propria condizione e a favore di quale alternativa) hanno espresso la propria preferenza a favore della convivenza con un partner principalmente le donne che vivono sole da pochissimo tempo, ovvero quelle che vivono da sole da meno di un anno. Sotto il profilo anagrafico le meno interessate a una convivenza con un partner sembrano le separate (solo il 13,3% delle separate esprime questo interesse) e le divorziate (il 30%) mentre maggiore desiderio di una vita condivisa con un partner viene espresso dalle donne vedove.
Non è infine da sottovalutare l’elevata percentuale di donne (circa il 40% di quelle interessate a un cambiamento della propria condizione) che a tale domanda hanno risposto dichiarando di voler continuare a vivere da sole ma in un contesto abitativo di prossimità con altre persone conosciute, soluzione che consentirebbe di salvaguardare interamente gli aspetti positivi del vivere da sole attenuandone quelli più critici
5) E come vivono le donne in età avanzata proprio oggi che la vita si allunga
L’età non è di per sé l’elemento discriminante nell’accesso e nella partecipazione ad attività e impegni sociali e, anche se al suo aumentare il rischio di una riduzione della partecipazione sociale si fa ovviamente più elevato, è possibile trovare nella stessa fascia di età donne che rinunciano a determinate attività e altre che scoprono quelle stesse attività e iniziano a praticarle.
Allo stesso modo può accadere che la stessa persona rinunci a una attività, divenuta poco compatibile con i propri interessi e con le proprie risorse, ma contemporaneamente ne scopra una nuova, all’interno di un processo che resta dinamico, che qualcosa sottrae ma dall’altro lato consegna.
Il momento in cui il saldo diventa negativo è verosimilmente l’esito di un processo e di una interazione più complessi in cui pesano, oltre a eventuali disagi oggettivi, anche da un lato le soggettività delle persone (con storie, memorie, e modalità di elaborazione delle esperienze differenti) e dall’altro il riconoscimento sociale loro accordato.
Quello che emerge dalle interviste è, in termini generali ma non per questo assolutizzabili, una riscoperta in età anziana della possibilità di poter finalmente pensare a sé (ed è evidente che le caratteristiche socio-anagrafiche delle donne intervistate rendono particolarmente pregnante questo dato trattandosi di donne che sono state mogli, madri e frequentemente nonne e che quindi hanno dedicato buona parte della loro vita a occuparsi di altri) e di non sprecare nessun momento del tempo che rimane.
Ancora una volta tuttavia pensare a sé non significa rinchiudersi nell’individualismo.
Le anziane (ma ovviamente anche gli anziani ) sono molto attive – ovviamente fino a quando e nella misura in cui lo consentono le condizioni di salute psico-fisica – nella comunità e spesso forniscono aiuto (attraverso forme di volontariato e di associazionismo) più di quanto non ne ricevano venendo a costituire una importante risorsa per la collettività.
L’impegno civile degli anziani è stato spesso letto in relazione da un lato all’allungamento della vita media (e quindi alla conservazione in età avanzata di capacità e risorse più consistenti rispetto al passato) dall’altro alla non posticipazione, che ne sarebbe dovuta conseguire, del pensionamento con carriere lavorative di durata non parametrata alle capacità produttive degli individui (questo perlomeno fino alla recente riforma del sistema previdenziale varata dal Governo Monti su proposta del ministro Fornero nel dicembre 2011 che ha, tra l’altro, elevato l’età pensionabile e che in futuro determinerà scenari molto diversi a oggi non ancora pienamente prevedibili).
E’ comunque un dato di fatto che esso presenta un duplice valore: quello stesso che viene attribuito all’impegno civile di ogni altra persona e quello ‘preventivo’ di costituire una possibilità di attivazione alle soglie di un’età nella quale aumentano i pericoli di isolamento dal circuito vitale della società. Ciò significa che l’impegno degli anziani (e, in modo particolare, delle anziane) nel lavoro di cura, sia intrafamiliare che comunitario, rappresenta una voce importante della vita economica in quanto consente un minor carico sul welfare pubblico sia delle prestazioni che vengono erogate dagli anziani a favore di altri sia di quelle di cui gli anziani non beneficiano grazie al mantenimento di migliori condizioni di salute psico-fisica, in parte rese possibili proprio dal loro essere attivi (L’Organizzazione Mondiale della Sanità già da molti anni ha sviluppato al riguardo una riflessione complessiva sul concetto e sulle politiche dell’‘invecchiamento attivo’ definito come un processo di valorizzazione delle opportunità di salute, partecipazione e sicurezza atte a migliorare la qualità della vita degli anziani. ‘Attivo’, in questa prospettiva, non si riferisce alla sola capacità di essere fisicamente attivi ma anche a quella di partecipare in maniera piena alla vita sociale, culturale e civile).
6) E’ necessario che la comunità preveda una sorta di co-housing?
Il discorso può essere affrontato a due livelli.
Il primo è costituito dalle esperienze di cohousing (intese come abitazioni in cui vi sia l’associazione di alloggi privati e spazi comuni, spesso caratterizzati dalla progettazione partecipata e da un disegno degli ambienti volto a favorire lo sviluppo di comunità, nonché da forme di gestione – e a volte anche di proprietà – cooperativa di spazi e servizi) che lentamente cominciano a diffondersi anche nel nostro paese e che si configurano come espressione della necessità di uno spazio rassicurante, in cui sia facile riconoscersi negli altri e posizionarsi tra simili e diversi. Si tratta di esperienze molto interessanti ma a oggi questa “enfatizzata ricostruzione di un senso di comunità e di responsabilità collettiva” quale “risposta progressista alla crescente atomizzazione sociale” (Chiodelli, 2010) appare non immune dal rischio di diventare, in ragione dell’omogeneità sociale (e/o etnica) che molto spesso la caratterizza, un elemento di ulteriore frammentazione e segregazione spaziale e sociale del panorama urbanizzato.
Il secondo è rappresentato dalla assoluta necessità di immaginare modelli alternativi (abitativi e di welfare) per rispondere alle esigenze delle persone (in particolare di quelle che vivono da sole e che potrebbero non poter fare affidamento su solidarietà intergenerazionali) che si trovassero a dover affrontare con l’avanzare degli anni una diminuita capacità di autonomia.
Attualmente l’architettura istituzionale dei servizi per gli anziani è fondata sulle grandi strutture (RSA) che raramente rappresentano la soluzione che gli anziani sceglierebbero se fossero nelle condizioni di poter esprimere il proprio parere/volere e che comunque non saranno nel tempo sostenibili sotto il profilo finanziario in considerazione dell’allungamento della vita media e, conseguentemente, del crescente numero di anziani che dovrebbero fruirne. Verosimilmente insostituibili nel caso di gravi disabilità o non autosufficienza totale, dovrebbero rappresentare solo una delle alternative possibili per tutti/e coloro che con forme di assistenza alternativa (e il cohousing è una di queste) potrebbero continuare a vivere a casa loro con maggior soddisfazione personale e minori costi sociali.
6) E’ finita la ricerca di creazione di una famiglia da parte delle più giovani, tipica degli anni passati?
Quello che mi sembra si possa dire è che l’ideologia del matrimonio e della famiglia resiste nonostante le evidenti prove di disaffezione (posticipazione del matrimonio, riduzione della nuzialità, instabilità coniugale), la diffusione di comportamenti che vanno in direzione opposta (l’aumento del numero di persone che vivono da sole ne è un esempio) e la progressiva erosione che negli ultimi decenni ne ha minato le basi funzionali: le donne, le principali destinatarie della pressione ideologica pro-matrimonio, oggi possono, infatti, guadagnare con il proprio lavoro il denaro necessario a mantenersi, possono essere madri sole di bambini con gli stessi diritti legali dei bambini nati da madri sposate, possono, grazie ai progressi della tecnologia medica riproduttiva, avere sesso senza avere bambini e bambini senza avere sesso, tutte variabili che in precedenza rendevano profonde le differenze tra donne sposate e non, giustificando il richiamo sociale e la necessità individuale del matrimonio.
Nel testo viene affrontato diffusamente questo cultural lag, ovvero questo disallineamento tra i comportamenti individuali che in misura massiccia vanno in una direzione e un’ideologia che ne propone/impone con forza un’altra.
L’evoluzione futura di questa contraddizione è difficile da prevedere ora anche se pare sempre più improbabile continuare a considerare la famiglia una struttura in qualche modo universale e naturale quando la varietà stessa dei modi di interpretarla e di ‘farla’ ne mostrano, oggi più che mai, il carattere particolare e storico (Chiara Saraceno, 2012, lo definisce “il paradosso normativo della famiglia”)
Bisognerebbe evidentemente indagare anche i comportamenti delle più giovani (ovvero le classi di età non coinvolte nella rilevazione) per cogliere le linee di tendenza.
7) Andiamo maggiormente verso le famiglie allargate o verso una vita di ‘’soli’’ che si accoppiano sporadicamente?
I due fenomeni, entrambi presenti e in crescita nel panorama sociale, si intersecano e la matrice sembra essere comune.
Si pensi, a titolo di esempio a come l’aumento dell’instabilità coniugale così come l’invecchiamento della popolazione – fattori entrambi fortemente implicati nell’aumento nel numero di persone che vivono da sole – stiano producendo “in alcuni casi e in alcuni contesti una ripresa delle famiglie estese: non più nella forma della coppia giovane che va a vivere con i genitori di uno dei due ma vuoi della coppia di mezza età che accoglie in casa un genitore rimasto vedovo e divenuto fragile, vuoi della coppia, o genitore vedovo, anziana, che riaccoglie in casa un figlio o una figlia che ha terminato il proprio matrimonio” (il cosiddetto fenomeno della ‘ricoabitazione’) (Saraceno e Naldini, 2007).
8) Le coppie omosessuali sembrano le uniche che pretendono e vogliono una vita di coppia. Finirà anche questa ricerca e richiesta o le coppie omosessuali sono più stabili?
Ci vorrà forse una lunga stagione di diritti riconosciuti prima di poter verificare quali siano i comportamenti effettivi delle coppie omosessuali
Bauman Z. Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi Laterza, Roma-Bari, 2004
Braidotti R. Nuovi soggetti nomadi Luca Sossella Editore, Roma, 2002
Bruckner P. Il matrimonio d’amore ha fallito? Guanda, Parma, 2011
Chiodelli F. Enclaves private a carattere residenziale. Il caso del cohousing Rassegna italiana di Sociologia, 1, pag. 95-116, 2010
De Rose A., Di Cesare M. Genere e scioglimento della prima unione in Pinnelli A., Racioppi F., Rettaroli R. (a cura di) Genere e demografia Il Mulino, Bologna, 2003
Gerstel N., Sarkisian S. Marriage: The Good, the Bad and the Greedy Contexts, Vol. 5, 4, pag. 16-21, 2012
Kaufmann J.C. C’era una volta il principe azzurro. Donne che vivono da sole ma non smettono di sognare Mondadori, Milano, 2000
Rosina A., Ruspini E. Formare una coppia in Ruspini E. (a cura di) Studiare la famiglia che cambia Carocci, Roma, 2011
Saraceno C., Naldini M. Sociologia della famiglia Il Mulino, Bologna, 2007
Saraceno C. Coppie e famiglie. Non è questione di natura Feltrinelli, Milano, 2012