I recenti dati diffusi dall’INPS evidenziano il boom nell’uso dei voucher per il lavoro accessorio
Di voucher ne sono stati venduti 115.079.713, il 66,3% in più rispetto il 2014, il 182,1% in più rispetto al 2013. Le persone destinatarie di almeno un buono sono state 1.380.030 (+35,6% rispetto all’anno precedente), di cui il 51,5% donne.
Il numero medio di voucher riscossi dal 2012 si attesta intorno a 60, per un importo annuale medio di circa 500 euro.
La loro grande diffusione è legata anche alla semplicità di acquisto: non solo attraverso INPS, ma anche attraverso banche accreditate, l’internet banking di Intesa S. Paolo, i tabaccai. Proprio attraverso i tabaccai si commercializzano il 67,9% dei voucher in circolazione.
Diffusi prevalentemente al nord: il 37,6% nel Nord Est, il 29,2% nel Nord Ovest. Prevalentemente in Lombardia (47,5 milioni di buoni venduti), Veneto (38,4 milioni) ed Emilia Romagna (34,2%).
Per piccoli lavoro dunque, un’impresa, una famiglia, un’associazione o una pubblica amministrazione – nei limiti della legge – possono ottenere le prestazioni di lavoratori o lavoratrici pagandole con i voucher (che potranno essere riscossi rivolgendosi al tabaccaio, ad esempio). Per ogni 10 euro pagati, il beneficiario riceverà 7,50 euro. Il 25% dell’importo trattenuto servirà a coprire i costi previdenziali, assicurativi e di gestione. Gli importi netti ricevuti non entreranno a far parte dell’imponibile fiscale e non dovranno essere denuncianti annualmente all’Agenzia delle Entrate.
Introdotti dalla Legge Biagi per piccole prestazioni accessorie individuate (piccoli lavori domestici e di giardinaggio, insegnamento privato supplementare, babysitting, ecc.), per determinate categorie di lavoratori (disoccupati da oltre un anno, studenti, pensionati, disabili, ecc.) che potevano svolgere le attività a favore di committenti familiari o enti senza scopo di lucro, ad esclusione delle imprese.
Il requisito indispensabile era rappresentato dall’occasionalità della prestazione (ovvero per prestazioni rese di durata non superiore a 20 giorni nell’anno solare e, in ogni caso, per importi non superiori ai 3.000 euro).
Con la riforma Fornero scompaiono alcune limitazioni e viene ammessa la possibilità per gli imprenditori e per le pubbliche amministrazioni di utilizzo dei voucher. Unico limite stabilito è il compenso, che non può superare i 5.000 euro considerando la totalità dei committenti, e i 2.000 euro con riferimento al singolo committente.
Con il Jobs act viene innalzato il limite dei compensi a 7.000 euro (9.333 euro lordi) considerando la totalità dei committenti, rimanendo fermo il limite di 2.000 euro (2.666 euro lordi) per ciascuna impresa.
Il voucher può dunque essere utilizzato per pagare qualsiasi tipo di lavoro, ad eccezione del settore agricolo per il quale il legislatore individua specifiche caratteristiche. Per i percettori di prestazioni a sostegno del reddito (la c.d. indennità di disoccupazione o mobilità), i limiti sono di 3.000 euro annui (4.000 euro lordi).
Per gli stranieri il reddito accessorio viene incluso ai fini della determinazione del reddito complessivo necessario per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno, caratterizzandosi per la sua funzione esclusivamente integrativa; ma per gli extracomunitari tale reddito da solo non è utili ai fini del rilascio o del rinnovo dei titoli di soggiorno per motivi di lavoro.
Nati con la finalità di far emergere il lavoro familiare in quegli ambiti dove risultava diffuso (soprattutto nelle famiglie e nella committenza non imprenditoriale), oggi di fronte all’importante evoluzione del fenomeno occorre chiedersi se non rappresentino una nuova frontiera del precariato. Analisi più puntuali ed approfondite dovranno permettere di comprendere se:
1) Siamo realmente di fronte ad una effettiva emersione del lavoro nero altrimenti non intercettato o se il voucher di fatto copra regolarmente solo alcune delle ore effettuate da lavoratrici e lavoratori, lasciando tutte le altre in nero;
2) Il lavoro accessorio sia una occasionalità reale o se sia l’unica opportunità di lavoro trovata dal soggetto beneficiario del voucher;
3) L’impatto in termini di quantitativo e qualitativo sulle donne, con particolare riferimento alla fascia di età fertile, per comprendere se il voucher possa mascherare stabilizzazioni non effettuate dalle imprese per paura della maternità delle lavoratrici.