Nella storia della bambina di Caivano nessuno se ne può completamente tirare fuori e in qualche modo è una chiamata in correo.
Avevo giurato di non farlo.
Perché il lungo corridoio nero in cui si sono di volta in volta arrotolate e srotolate le notizie, i dibattiti, le posizioni individuali, il giornalismo, il voyeurismo, la morbosità, l’appartenenza, il parlato e il virtuale, quel lungo corridoio in cui abbiamo inciampato nostro malgrado e che ci ha condotto infine a varcare la porta che divide dall’orrore, non può fare che male. E quest’ultimo, sia quello vissuto degli adulti come quello delle favole dei piccoli, è sempre terribile da accettare. Perché a Caivano non si è recitato un copione, dove i cattivi subiscono alla fine la giusta punizione che mette in pace strappando l’applauso.
Nella storia, vita, morte? della bambina di Caivano, e non va bene chiamarla per nome come se avessimo condiviso la sua breve esistenza, dalla quale invece eravamo separati alla nascita, nella vita e nel suo inferno, nessuno se ne può completamente tirare fuori e in qualche modo è una chiamata in correo.
Il mostro, l’assassino, il pedofilo, l’uomo nero alla fine sarà trovato. Che la giustizia faccia il suo corso. Però, questa vicenda rende impossibile girare pagina distrattamente. Perché induce a leggere fra le righe, sollecita l’attenzione, spinge ad entrarci e non troppo in punta di piedi, neanche se volessimo girarci egoisticamente dall’altra parte.
Perché la bambina di Caivano, il bambino morto in circostanze simili prima di lei, delle sue amichette, mettono a dura prova le nostre coscienze. Per tutto ciò non mi interessa soffermarmi su quello che hanno detto in diverse e troppe occasioni i personaggi invitati a esprimersi.
I dati noti sono: realtà geografica, Caivano Comune di Napoli, 37.874 abitanti, come ci riporta asetticamente Wikipedia. Parco Verde, una delle tante realtà urbanistiche sparpagliate in quel territorio, un complesso di case fatiscenti.
Dati acquisiti: un luogo di degenerizzazione urbana che influenza e alimenta quella umana, dove è presente ancora l’analfabetismo e dove la vita nessuno te la regala, un ghetto istituzionalizzato, dove risiedono povertà e delinquenza, dove si annullano le speranze di tante persone. Un agglomerato di cemento per alloggi popolari privi di manutenzione in cui crescere, vivere e morire.
Dati di un’indagine: una bambina morta in circostanze ormai chiare di abuso che, quando avvenga su minori a prescindere dal loro sesso, assume la denominazione di pedofilia.
Aperta dunque la porta dell’orrore, diventa difficile un approccio distaccato a parlare di questa vicenda. Come persona attenta ai fatti, non posso non interrogarmi come ogni volta la violenza prediliga soggetti femminili di tutte le fasce d’età, in pace come in guerra e in ogni società.
Ma anche una peculiarità di genere, alimentata da stereotipi culturali che ne hanno sempre sottolineato la naturale assertività e la dedizione al genere opposto.
L’assoggettamento psicologico ed economico di un genere verso l’altro, l’accettazione di comportamenti di dipendenza femminile nei confronti dell’uomo può rendere anche parzialmente e inconsciamente complici di uguali atteggiamenti, vittime e carnefici.
In questa orrenda vicenda di pedofilia, di violenza, di ignoranza, la posizione generale di agnosticismo, di equidistanza di alcuni residenti ne è la prova. Emergono silenzi e passività.
Infine, non ultima, l’unica cultura ed espressione mediatica che pare conservata e alimentata sembra essere quella rivolta ancora contro il genere femminile. La bellezza, il corpo, gli ornamenti, la moda, gli ammiccamenti. Insegnati e recepiti. Non c’è colpa, c’è l’assuefazione, unico riconoscimento di un valore aggiunto, diverso, quanto pericoloso. Che senza dolo si trasmettere e diventarne inconsapevolmente complice. Basta osservare quante bambine vengono esposte mediaticamente in nome di geni di bellezza frustrati e tramandati.
Impossibile quantificare le colpe da parte di chi non conosce le origini di questo male.
Per questo azzardo, mio malgrado, con profondo disagio, un ragionamento di genere; perché solo una cultura più giusta, paritaria e di diritto può cambiare gli schemi e i comportamenti di uomini e donne fin dalla più tenera età.