Francesca Bertuglia concilia la sua attività professionale con la programmazione di PARTY – l’arte da ricevere, perché per lei l’arte è grande fonte di ispirazione e la sua home gallery un’occasione di proficuo scambio con gli artisti che ospita.
Tutti i giorni, arriva in studio dopo la solita oretta in palestra, dà una sbirciata all’elenco di “cose da fare” messo giù la sera prima e parte per una nuova giornata di lavoro romana. Il che accade ormai da oltre vent’anni, da quando cioè ha avuto i suoi primi ingaggi come architetto d’interni: aveva appena 28 anni (o giù di lì), si era laureata al Politecnico di Torino, si era trasferita a Roma (per amore) e aperto il suo primo studio. Oggi concilia la sua attività professionale con la programmazione di PARTY – l’arte da ricevere, perché per lei l’arte è grande fonte di ispirazione e la sua home gallery un’occasione di proficuo scambio con gli artisti che ospita. Un salotto, luogo di piacevole incontro per gli abitanti del quartiere – l’Esquilino – mescolati con gli “addetti ai lavori” e gli amici degli artisti e di Francesca.
Sei stata incoraggiata dalla tua famiglia nella scelta di studiare architettura?
Difficile rispondere. Il mio sogno era iscrivermi a un’Accademia di Belle Arti. A 18 anni d’altra parte le mie idee non erano così chiare e studiare Architettura lasciava molte porte aperte: dalla storia dell’architettura al disegno industriale, dalla scenografia all’urbanistica. Incoraggiata forse sì, in quanto in assenza di una determinazione forte la scelta di studiare Architettura lasciava la possibilità di sperimentare cose molto diverse fra loro per poter poi trovare la mia strada.
Architetto o architetta?
Sebbene io sappia che i cambiamenti passano anche attraverso il cambiamento del linguaggio preferisco rispondere a questa domanda con un’altra domanda.
Come mai in venti anni di attività professionale non ho mai incontrato un elettricista donna, un falegname donna, un idraulico donna, un tappezziere donna? Sembra che per le donne sia stato più facile diventare magistrato, ricoprire cariche pubbliche piuttosto che farsi spazio professionale in mestieri tecnici legati al campo dell’edilizia.
In venti anni di attività ho avuto il piacere di lavorare solo con un’imprenditrice edile donna e una sola imbianchina.
Cosa significa per te fare architettura oggi?
Io intervengo quasi sempre nella trasformazione di ambienti domestici appartenenti a contenitori edilizi realizzati nel passato. Fare architettura significa avere la capacità di leggere la struttura preesistente e capire come trasformarla per le esigenze di vita contemporanea senza “violentarla” e senza cancellare le peculiarità e le caratteristiche del passato. Fare architettura oggi significa confrontarsi e conoscere molto bene l’innovazione dei materiali e delle tecnologie, e contemporaneamente tenere conto dell’evoluzione continua del modo di vivere, comunicare e lavorare. Per me è fondamentale trasformare e attualizzare l’ambiente domestico nel massimo rispetto delle esigenze dei futuri abitanti e del contenitore edilizio preesistente.
A chi ti ispiri?
Guardo molto all’arte contemporanea per spunti, suggestioni cromatiche e texture. Ho imparato a fotografare molto sia quando viaggio che nel quotidiano. Ho un enorme archivio di immagini raccolte negli anni a cui attingo. Tendo ad affrontare la parte creativa del mio lavoro in maniera non organizzata. So che c’è la parte progettuale distributiva ed ergonomica che necessita della razionalità; poi c’è la parte di decor che richiede istinto e sensibilità, soprattutto nei confronti dei miei clienti. Non ho stili o epoche a cui mi ispiro. Ogni progetto è diverso dal precedente, i riferimenti a cui ispirarsi li trovo spesso insieme ai miei clienti dialogando con loro, cercando di capire in cosa loro si rispecchiano.
E cos’è per te la bellezza?
La prima parola che abbino mentalmente a bellezza è coerenza. Secondo me non c’è bellezza se non c’è coerenza. Un ambiente domestico bello deve avere equilibrio e deve essere in sintonia con chi lo abita. L’ambiente domestico è in qualche modo il palcoscenico della nostra vita e quindi dovrebbe rappresentare ed essere coerente con esigenze e sentire degli abitanti.
Si raggiunge la bellezza quando si crea il giusto rapporto fra persone, oggetti e ambiente.
Come contestualizzi la sensibilità femminile in architettura?
Credo che la sensibilità femminile nel mio lavoro sia estremamente utile nel rapporto con i clienti. Pongo continuamente domande sul loro modo di vivere, le loro abitudini, le loro relazioni. Se sono famiglie e ci sono figli cerco di parlare anche con loro per conoscere quali sono le loro esigenze. Non mi fermo alle richieste esplicite ma cerco di far emergere anche quello che non viene dichiarato. Intervenire nello spazio dell’abitazione richiede pazienza e delicatezza. Il mio più grande successo è sentirmi dire dai miei clienti che dopo anni ricordano con piacere il lavoro fatto insieme ed essere richiamata per fare di nuovo una casa insieme.
Affermarsi professionalmente è più difficile per le donne architetto?
Non credo ci sia una differenza fra donne e uomini architetto. L’unica differenza è che le donne architetto nel momento in cui scelgono anche di diventare madri possono per qualche anno avere un’attività professionale che progredisce più lentamente. Ma appunto si tratta di una scelta.
Sei mai stata discriminata durante la tua carriera?
Forse si, ma probabilmente non me ne sono accorta. Erroneamente si tende a pensare che una donna architetto sia meno preparata sugli aspetti strutturali e tecnologici e che invece possegga doti più spiccate sugli aspetti decorativi e di arredo.
Niente di più sbagliato e legato a falsi luoghi comuni.
Non credo che sia accaduto che un lavoro non mi sia stato affidato per questioni di genere. I fattori che incidono nella scelta di un professionista, donna o uomo che sia, dipendono dal senso di fiducia che si riesce a trasmettere, a parità di prestazioni offerte; dalla competitività economica e dalla soddisfazione dei precedenti clienti. Questo ultimo fattore in assoluto è il miglior biglietto da visita.
Quale è il progetto architettonico che ti è rimasto nel cuore?
Tanti: tutti quelli da cui è scaturito un rapporto di scambio umano proficuo con i miei clienti. Da un punto di vista di soddisfazione personale sono particolarmente affezionata a due lavori: in un caso, per aver risolto la distribuzione interna di una casa umbertina di 160 mq che disponeva di sole quattro grandi finestre; in un altro, per essere intervenuta nella trasformazione di un’abitazione per volere di una signora rimasta vedova da poco, trasformazione che doveva però aver cura dei segni della precedente vita vissuta.
Cosa pensi dell’attuale situazione delle donne architetto?
Penso che in generale la nostra categoria professionale di architetti, donne o uomini che siano, non abbia saputo difendere e comunicare l’importanza del ruolo professionale che si ricopre. Una professione faticosa, che in questo momento che trova pochi spazi per esprimersi, costretta a lavorare a ribassi sempre maggiori. Ecco, un’idea sarebbe che le donne architetto provassero a fare maggiormente rete. Sono assolutamente convinta che in momenti di crisi e di scarse opportunità la capacità di mettere in rete anziché di difendere il proprio piccolo orticello sia assolutamente più pagante.
Che rapporto hai, nel tuo lavoro di architetto e nel quotidiano, con la tecnologia?
Un rapporto assolutamente sereno, non sono un’appassionata di tecnologia ma so bene che è necessario utilizzare intelligentemente i nuovi strumenti che la tecnologia ci offre. Uso i programmi di grafica ma nel mio studio non mancano mai carta e pennarelli. Utilizzo il social network ma amo anche invitare le persone con la vecchia telefonata. Credo sia importante saper utilizzare la tecnologia ma forse per un architetto d’interni è ancor più importante osservare e capire i cambiamenti che la tecnologia comporta nella vita quotidiana delle persone e come questi cambiamenti si riflettono nell’uso degli spazi domestici e di lavoro.
Come è organizzato il tuo lavoro, cosa riesci a delegare e cosa segui personalmente?
In studio tutti i giorni dal mattino dopo un’ora quotidiana di palestra; in cantiere più volte nella settimana a seconda delle fasi realizzative. Cerco di pranzare a casa – la vicinanza casa/studio me lo consente – in cambio lavoro fino a tardi.
Ho da sempre adottato orari spagnoli!
Le mie collaboratrici di studio hanno la massima flessibilità nell’orario e nell’organizzazione: l’importante è il risultato. Quello che non può essere mai delegato è il rapporto diretto con il cliente. Amo definire la mia attività artigianale, un laboratorio più che uno studio professionale. In questo senso a seconda dei lavori e delle persone che collaborano ai progetti l’organizzazione viene definita di volta in volta. Se sono stagisti mi seguono in cantiere e in varie attività per poi lavorare individualmente sulla grafica. La mia collega Valeria, che ormai collabora da 5 anni con me, invece mi sostituisce talvolta negli uffici tecnici ed in altre attività, rimanendo sempre però il piacere e l’utilità di sviluppare alcune attività insieme.
Quale è stato il tuo approccio nella guida dello studio?
Ho imparato da tanti errori le seguenti cose:
1. scelgo solo donne come collaboratrici tranne rarissimi casi fra cui Pietro Zucca, uno scultore che collabora con me su alcuni progetti;
2. massima libertà nell’organizzazione di orari perché voglio solo collaboratori orientati a un futuro di libera professione: nel mio studio non c’è assolutamente spazio per chi cerca un lavoro gregario;
3. verifico sempre tutto prima di consegnare o presentare un lavoro perché mi ritengo sempre responsabile di errori e disattenzioni.
Che suggerimento daresti alle giovani colleghe? Consiglieresti a una ragazza di iscriversi ad architettura?
Il suggerimento è quello di capire il prima possibile in cosa ci si vuole specializzare e di cercare possibilmente dei settori di nicchia. Le scelte troppo generiche in questo momento non pagano. Il consiglio che darei è di essere pronte a una professione dura, dove non saranno solo le capacità creative a determinare la loro affermazione. Le capacità creative vanno coniugate con capacità organizzative, comunicative ed imprenditoriali. Suggerirei ad esempio di inserire nel loro percorso di studio materie come il marketing. Trovo che gli architetti in generale siano troppo digiuni sulle tematiche di comunicazione e marketing e spesso si arrabattino con le proprie forze e fantasia laddove invece esistono tecniche precise da apprendere.
Un oggetto di design e un’architettura a cui sei particolarmente affezionata.
L’abitacolo di Bruno Munari del 1971: il mio desiderio di bambina. L’ho tanto desiderato e alla fine l’ho regalato a mio figlio quando era piccolo per la sua camera.
La casa che Rudolph Schindler disegnò per se stesso nel 1922 a Los Angeles, la visitai in un viaggio di tanti anni fa: una casa in cui abiterei.
Come riesci a conciliare la tua attività di home gallerist con l’impegno professionale?
Inizialmente il mio progetto di PARTY – l’arte da ricevere era strettamente legato all’attività professionale e nasceva solo come un modo simpatico di promuovere la mia figura professionale. Poi ha avuto una evoluzione quasi autonoma e non guidata da me. Ora include molte relazioni con artisti che collaborano, con altre figure professionali che si accostano al progetto in maniera propositiva. Per questa attività ho deciso di lavorare in modo diametralmente opposto a quello con cui mi pongo nella professione dove lo scopo principale è comunque alla fine far quadrare i conti e soddisfare i miei clienti. Per ora riesco a conciliare lavoro professionale e organizzazione di PARTY ma so che sta arrivando il momento di aprire sempre più il progetto agli altri.
Sul tuo tavolo da lavoro non manca mai…
Per lavorare in genere preferisco i tavoli vuoti. Il disordine non mi aiuta a pensare. Fra le poche cose:
1. un barattolo di matite, penne, pennarelli, evidenziatori, …
2. il portatile o il tablet
3. un foglio con l’elenco delle cose DA FARE OGGI (che preparo sempre il giorno prima quando chiudo studio)
4. agenda cartacea di cui non mi sono ancora liberata nonostante google calendar
Una buona regola che ti sei data
Di fronte al pensiero di una cosa che mi sembra difficile fare, ricordarmi del fatto che tutte le cose difficili affrontate spesso si sono rivelate più semplici del previsto.
Il tuo working dress?
Immancabile la borsa Freitag per il cantiere, così la butto dove capita e scarpe comode sempre.
Città o campagna?
Assolutamente città. Se Roma, la mia città di adozione: i quartieri multietnici come l’Esquilino, i quartieri delle borgate spontanee come il Quadraro, l’EUR di notte, le zone dell’Appia dove la campagna entra prepotentemente nella città.
Qual è il tuo rifugio?
Le milonghe in giro per la città dove posso ballare fino a tardi con amici e sconosciuti.
Ultimo viaggio fatto?
Il Salento d’inverno e il barocco leccese
Il tuo difetto maggiore?
Una ruvidità di carattere che non mi rende simpatica al primo impatto.
E la cosa che apprezzi di più del tuo carattere?
Il sapere essere paziente e ascoltare più che essere ascoltata.
Un tuo rimpianto?
Non riesco ad avere rimpianti perché penso che alla fine quello che scegliamo di fare è proprio quello che riusciamo e vogliamo fare.
Work in progress…?
Iniziare un cantiere di ristrutturazione a metà luglio e finirlo per metà settembre.
Mettere a punto il programma per il nuovo anno di PARTY. L’organizzazione di una mostra a ottobre con Franco Cenci, l’esperimento in abbinamento di due serate di teatro in casa e l’organizzazione di un laboratorio per bambini in una libreria del quartiere.
A novembre la mostra di AK2deru ancora tutta da pensare.