ATTIVISTE COSTRETTE AL SILENZIO.
In un sistema pervaso da una millenaria tradizione patriarcale di cui la misoginia è certo l’espressione più evidente, quello relativo alla parità di genere appare un concetto quasi ai limiti della blasfemia.
L’autorevolezza dell’uomo in ogni ambito della quotidianità (talvolta avvalorata dai vertici istituzionali e clericali per ragioni funzionali al potere) può essere indubbiamente ritenuta alla genesi dell’emarginazione femminile sin dagli albori del percorso umano.
Sarebbe ovviamente azzardato ed eccessivo individuare nella forzata passività delle dirette interessate (relegate a una dimensione puramente biologica e servile dell’esistenza) una tacita quanto obbligata condiscendenza alla sottomissione; tuttavia la complementarietà della rassegnazione al dominio resta innegabile. Ed è proprio l’assioma, tra l’altro, da cui il mondo islamico (ostile alla concessione delle libertà più elementari) seguita a trarre linfa vitale.
Emblematica in tal senso è l’intransigenza del governo iraniano nei confronti dei movimenti emancipatori: dall’inizio dell’anno – a fronte delle crescenti rivendicazioni – le rappresaglie nei confronti delle attiviste si sono notevolmente intensificate. Minacce, arresti, detenzione. Il 6 giugno scorso l’antropologa iraniano-canadese Homa Hoofar – docente universitaria da tempo impegnata contro le disuguagliaze sociali – è stata rinchiusa in regime di isolamento sine die nella Evin Prison di Teheran con l’accusa di “coinvolgimento in attività criminali estese al femminismo e dannose per la sicurezza nazionale“.
A ispirare la ritorsione della leadership, l’attestata appartenenza a eloquenti organizzazioni internazionali quali Women Living Under Muslim Laws (mirante al sostegno delle musulmane in lotta per il riconoscimento dei propri diritti) e Campaign to Change the Masculine Face of Parliament, istituita con l’obiettivo di consentire alle donne l’accesso alle cariche pubbliche.
Fattori più che sufficienti per indurre i media allineati con i Guardiani della Rivoluzione (corpo militare assemblato dopo l’insurrezione del 1979 e piuttosto incisivo anche nel contrasto alla dissidenza interna) a tacciarla in termini di “spia infiltrata in un network femminista per compiere gesti passibili di compromettere l’ordine pubblico e promuovere cambiamenti socio-culturali che rischiano di generare un golpe pacifico“.
Una prospettiva intollerabile per gli oligarchi della Repubblica Islamica. Una compagna della studiosa è stata catturata e sottoposta a incessanti (quanto brutali) interrogatori volti a estorcere ammissioni di collusione con “correnti ideologiche esterne finalizzate alla sovversione dello stato iraniano“. In seguito alle continue pressioni esercitate dall’establishment, molte militanti si sono dunque ritrovate costrette al silenzio.
Il risultato è che mentre l’ultimo aggiornamento de sito web Feminist School risale a cinque mesi fa, il periodico Zanan-e Emrooz (Today’s Women) ha ufficialmente sospeso le pubblicazioni il 26 luglio.
“Discutere sull’uguaglianza non è un crimine. Stiamo cercando di arginare molestie e intimidazione, che poi è ciò che sperano le iraniane“, ha osservato Magdalena Mughrabi, vicedirettore a interim di Amnesty International per Medio Oriente e Nordafrica. “Anziché ascoltare le ragioni delle femministe, l’esecutivo ha optato per la loro repressione. La presunta implicazione in un ipotetico complotto ordito dall’Occidente è solo un ennesimo pretesto per incoraggiare la discriminazione“.