ARTEDIPARTE. SENSIBILITÀ FEMMINILE – Uno spettacolo e due mostre
Uno spettacolo e due mostre. visitabili a Milano fino all’8 gennaio 2017, le fotografe italiane alla Triennale e Uneasy Dancer di Betye Saar alla Fondazione Prada, sono lo spunto per una riflessione sull’espressione artistica femminile.
La mostra della Triennale L’altro sguardo. Fotografe italiane 1965 – 2015 a cura di Raffaella Perna, con opere provenienti dalla Collezione Donata Pizzi, nata in collaborazione con il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, è un appuntamento importante per una riflessione sul ruolo delle fotografe nella cultura italiana contemporanea. Vi si trova anche Parlando con voi, un’istallazione tratta da un libro di Giovanna Chiti e Lucia Covi (Danilo Montanari Editore), in cui da trenta diversi schermi, si possono seguire interviste alle fotografe in mostra, oltre a visionarne opere e pubblicazioni. Un possibile percorso di visita potrebbe prevedere – noi lo consigliamo – di esaminare prima le opere esposte e, selezionate le autrici più vicine al nostro interesse, approfondirne l’opera attraverso i filmati dell’istallazione, messi a disposizione subito dopo l’ingresso.
L’occasione è stimolante perché evidenzia il ruolo cruciale della fotografia nella denuncia e nella demistificazione del sessismo che prevale nella rappresentazione femminile diffusa dai mezzi di comunicazione di massa. Molte fotografe hanno fatto un uso consapevole del mezzo per raccontare la realtà assumendo uno sguardo sessuato per esplorare le differenze di genere come costruzione sociale. La fotografia femminile esplora i nessi fra corpo e identità e fra realtà e rappresentazione, creando modelli alternativi agli stereotipi correnti.
Per le sue caratteristiche di aderenza alla realtà, il medium fotografico testimonia e documenta, per esempio, le lotte femminili della nostra storia recente. Per le milanesi saranno particolarmente interessanti le immagini dei moti studenteschi, delle fabbriche occupate e degli eventi giudiziari più importanti nella vita della città, che troveranno nell’opera di Giovanna Borgese. Intensamente interrogative, poi, le immagini di Carla Cerato che ritraggono il reparto psichiatrico dell’ospedale di Gorizia. Per la loro straniante fantasia e ‘profeticità’ ci sono piaciute le fotografie di Libera Mazzoleni, chiuse in piccole pochette di plastica, pronte ad attraversare mari, ad additare stringenti necessità d’innovazione di pensiero. Bellissima e splendidamente sintetica la serie della fotografa Shoba, Gli ultimi Gattopardi, che rimanda un’immagine sarcastica e tenera della Sicilia, che non può che inchiodare.
Vien da chiedersi, però, se sia per una ragioni puramente professionali che le fotografe italiane qui presentate abbiano avuto uno spazio apparentemente più rilevante nella cronaca, nella denuncia sociale, nella drammaticità dell’esistenza, per come la si scopre guardando impietosamente da un obbiettivo. Se non sia stato ugualmente presente nella storia italiana uno sguardo meno assoggettato alle cose così come sono o come si devono rivelare al fine di un impegno per il cambiamento sociale. Un atteggiamento forse più straniato, disobbediente e ardimentoso, come quello che abbiamo potuto ammirare, sempre alla Triennale, nella mostra sulle Designer italiane contemporanee, a cura di Silvana Annicchiarico, aperta al pubblico fino al 19 febbraio. Ne abbiamo già parlato qui.
Non vorremmo che la particolare attenzione per il mondo, che di certo positivamente è assegnata alle donne nel discorso pubblico sia da attribuirsi (forse pericolosamente) a una certa assuefazione al ruolo che, a volte loro malgrado, ma spesso spontaneamente, le donne occupano nella società: la sfera della cura.
Che un particolare sguardo sulla realtà, predisposto alla denuncia, all’impegno, alla lotta per la giustizia sia visto come specificamente femminile è un bene e, da un punto di vista etico, è certamente commendabile. Ma altrettanto sicuramente presenta un rischio. Di soffocamento, di una sorta di compulsione a occuparsi degli/delle ultimi/e, degli/delle impresentabili, a impadronirsi non del centro della scena, ma sempre e preferibilmente di incerti interstizi e laceranti confini. Questa sensazione ci aveva già sottilmente pervaso durante la visita alla mostra di fotografia femminile a Venezia lo scorso dicembre. Qui il nostro articolo. Ma dopo questa esposizione, la domanda ci preme ancor più fortemente.
Stiamo parlando non del cliché della dolcezza, emotività o sensibilità attribuite comunemente alle donne, ma di quell’altrettanto grande pressione sociale che ci carica sulle spalle opprimenti responsabilità universali su affari e famiglie, su cose, persone e animali, e di quel cospicuo catalogo di disgrazie del mondo che ogni giorno, come donne, ci coinvolge e ci travolge e che, francamente, stracca.
Ci ha colpito lo stesso sentimento, assistendo a uno spettacolo su una cantante che tocca le corde più profonde dell’umanità da questo punto di vista, e che ha saputo fare della musica uno strumento di denuncia e di impegno, di rivendicazione e personale risalita dall’inferno. Rosa Balistreri, è stata protagonista della rappresentazione Rosa la cantatrice presso il bellissimo Alta Luce teatro, proposta innovativa di un piccolo gruppo di giovani donne, che da alcuni anni a Milano offrono nuove idee e spettacoli di ricerca. Se non l’avete ancora fatto, una visita è davvero consigliata, soprattutto se seguite questa rubrica e desiderate sostenere i talenti artistici e imprenditoriali delle donne.
Lo spettacolo su Rosa Balistreri ci ha dato l’opportunità per conoscere meglio le vicende drammatiche della sua vita, e per riflettere sulle deprivazioni sociali che sono causa delle marginalità più gravi ed estreme: Rosa ha subito violenze e abusi dal marito, ha conosciuto il carcere ed è rimasta analfabeta fino a trentadue anni! Lo avremmo voluto centrato più sulla performance da consumata mattatrice dell’attrice-cantante che ne impersonava la figura – la bravissima Chiara Verzola – che sul format dell’intervista di piazza, drammaturgicamente debole, e più declinato sul versante fascinoso della musica popolare che sugli stilemi di una musica d’intrattenimento, con sonorità debordanti e poco adeguate all’ambiente intimo del piccolo teatro sul naviglio milanese. Balistreri era cantante dal timbro roco e oscuro, che si accompagnava con una chitarra nuda ed essenziale, su cui mormorava e gridava la propria protesta dolorosa, la propria rabbiosa volontà di riscatto. Con il suo tentativo di raggiungere, attraverso il non facile palcoscenico del Festival di Sanremo, il più ampio pubblico nazionale, rappresentò l’esigenza di liberazione delle donne e del popolo, e il senso universalistico della tradizione culturale della sua terra, la bella Sicilia, eterna regina in cenci.
Vogliamo citare per intero un passo del profilo biografico di Rosa Balistreri, tracciato da Giovanna Providenti per l’Enciclopedia delle donne:
«[… ] la cantante Lucilla Galeazzi ha detto a proposito del modo di cantare di Rosa: «fare politica attraverso la canzone popolare non è solo qualcosa di esplicito e legato ai fatti del momento, ed è nel “come” non solo nel “cosa”. Lei portava avanti la voce del popolo, cantava le canzoni che appartengono a tutti, che sono “comuni” fin dalla loro radice e alle quali non è possibile apporre alcun tipo di copyright. […] Ecco allora che Rosa aveva la capacità di trasmettere la disperazione, di renderti compartecipe del lamento di questa donna: e anche questo è fare politica».
Sì, però però… le donne le vogliamo anche sciolte, fantasiose, irriverenti, persino ridanciane. Non in qualche modo costrette al dramma. Ci sbagliamo? Vogliamo una creatività femminile veramente libera, che non si carichi sempre e comunque di tutti i fardelli del mondo.
Abbiamo in mente la proposta di un’artista in mostra in questi giorni alla Fondazione Prada, Betsy Saar, qui nella foto. Novanta rivoluzioni intorno al sole, come dice lei.
G uardate gli accostamenti di oggetti, di colori e materiali delle sue opere, e la libertà irridente con cui scava nel profondo delle culture e delle identità. L’antologica presso la Fondazione Prada dal titolo Uneasy Dancer (danzatrice incerta), curata da Elvira Dyangani Ose, è la prima occasione per il pubblico italiano di conoscere più di 80 opere tra installazioni, assemblage, collage e lavori scultorei creati tra il 1966 e il 2016.
Anche in questo caso l’indagine artistica affronta il tema della costruzione di un’entità socio-politica, combinandone la dimensione “a una visione spirituale che attinge a molteplici credenze e tradizioni di origine africana, asiatica, americana ed europea” e attraversando un percorso artistico veramente liberato da confini e restrizioni, da ruoli, professioni, Paesi, e, persino, da quella certa sensibilità…
Gli assemblaggi di immagini e oggetti di Saar, inseriti in scatole o valigie, o contenuti all’interno di gabbiette, rappresentano “una condizione fisica e metaforica di segregazione, ma anche di resistenza e sopravvivenza”.
Raccontano uno sforzo consapevole di evoluzione e di superamento, e la padronanza assoluta del mondo degna di una Regina.
A proposito di regalità, durante la visita alla Triennale, ci siamo soffermate particolarmente a lungo su una serie in sole tre stampe che la fotografa Marcella Campagnano dedica a questo tema, su cui vogliamo proporvi un piccolo gioco. Provate a osservarle per scoprire quali siano le caratteristiche che la fotografa ci indica come costitutive della dignità regale: le forme, i punti del corpo evidenziati, le linee, rette o curve, del corpo e delle vesti.
Poi pensate a voi stesse, al vostro stesso corpo, quali direste siano i lineamenti, i punti, le superficie in cui risiede la vostra unica e personale regalità? Il portamento, le mani, la linea del collo come in Primo piano di Marina Ballo Charmet in apertura?
Fateci sapere cosa vi ha suggerito la visione di queste fotografie.
Cosa indossate per sentirvi regine? Un copricapo fantasioso o una cravatta? Una stola di lana d’angora, i jeans stracciati o una sottoveste di seta? Diteci le vostre singolari scelte.
Meglio ancora, prendete una macchina fotografica, magari soltanto quella del telefonino (blasfemia!) e uscite in strada per fotografare la vostra personale incarnazione della regalità. E non dimenticate di mandarci le foto. Oppure accontentatevi di rimirarvi, lungamente, in uno specchio.
9 commenti
Degli orecchini brillanti.
È questa l’immagine che associo ad una regina.
Li ho indossati e mi sono ammirata allo specchio.
Perche la musica non deve intrattenere ma annoiare? Riproporre la stessa cosa chitarra e voce, che senso ha? Rassicurativo? Se rosa fosse vissuta negli anni 90 avrebbe suonato del gran grunge a seattle con una bella camicia a quadri. Quella non era certamente musica di “intrattenimento” (anche se non capisco come una musica non possa intrattenere) ma musica di protesta. Quello che si è cercato di fare è stato di attualizzare rosa, di ricordarci che forse molte cose non sono cambiate, per ricordarci che la fuori ci sono tante ragazze che con mezzi piu moderni cantano del disagio di una terra e di una generazione.
Interessante punto di vista, grazie. La riattualizzazione è importante. Certo, esiste ottima musica d’intrattenimento, ma la musica non è sempre e solo necessariamente tale: ci sono contenuti estetici non necessariamente consoni al gusto dominante o alle più diffuse abitudini di ascolto.
La musica ha un ruolo. La musica serve a comunicare. Comunicare uno stato d’animo o raccontare una storia. Per farlo si utilizzano linguaggi che l’ascoltatore possa identificare, che rappresentino un immagine o che li riporti ad un ricordo. Non dimentichiamo che parliamo di uno spettacolo svoltosi a teatro e come tale la funzione di storytelling la deve fare da padrone in una situazione in cui due forme d’arte si uniscono. La musica in questo caso aveva il compito di comunicare uno stato d’animo e di riportare al pubblico, soprattutto quello più giovane, a un immagine, ad un periodo. Le chitarre distorte ed un linguaggio misto di psichedelia e punk comunicano il dolore di una generazione di protesta, mi riferisco ai movimenti giovanili pre 2000. Contenuti estetici non necessariamente consoni al gusto dominante, al popolo, avrebbe distolto l’attenzione del pubblico portandolo a concentrarsi sulla musica piuttosto che alla totalità dell’opera non comunicando in poche note una totalità di sentimenti. Avrebbe mancato al suo dovere. E poi cos’é la musica se non parla al popolo, se non usa un linguaggio a lui affine per introdurre magari altri linguaggi, o per comunicargli un messaggio? Un musicista deve essere consapevole per chi sta suonando, componendo. Se per il proprio ego o per gli altri.
Guido, la musica non ha un solo ruolo: così esclude dalla sua storia un filone importante che va da Beethoven – che non trovò certo subito un pubblico ben disposto verso le sue innovazioni – al recentemente premiato Sciarrino. La creatività segue strade spesso ardue per il pubblico. Vero è che nell’integrazione di vari linguaggi, che si realizza in teatro, la musica tende di consueto a percorrere la strada che lei addita. Ma Rosa Balestreri – questa è la mia interpretazione – pur presentandosi su palcoscenici popolari come quello di Sanremo, aveva un cuore antico. Lo spettacolo, dopotutto, poteva avere fra le sue finalità, quella di presentare Balistreri non solo come donna, ma come artista. Le va riconosciuto il merito di aver riscoperto e riprodotto in un certo modo, intimo, scarno ed essenziale, una “musica della memoria” e non una tradizione musicale già pienamente codificata e consona alle abitudini del pubblico. Questo, a mio avviso. Ripeto che la musica d’intrattenimento ha una sua ovvia dignità e ragion d’essere, che non è, però, l’unica!
Ma non è vero! Beethoven è stato un grandissimo comunicatore. Il suo è stato un ruolo importantissimo in quell’epoca. Prendiamo la sinfonia numero 3 ad esempio. Quanta forza ci esprime? Un messaggio potrebbe essere: nei momenti più bui e difficili, lasciate che spalanchi le porte delle vostre giornate, come un vento che soffia deciso per cambiare aria alla vita. La sto ascoltando ora. Ha avuto un ruolo fondamentale in quell’epoca. Come la nona sinfonia. Fratellanza. Che bella cosa. Quanto bisogno di fratellanza c’era in quell’epoca. E quanto ancora oggi!!! Un’artista in quanto tale comunica sempre qualcosa e usa stilemi riconoscibile per penetrare gli animi. Una volta che ha aperto le orecchie ed il cuore, una volta che ha convinto l’ascoltatore a fidarsi allora puó azzardare, puó usare l’ascoltatore per sperimentare. Altrimenti sono solo masturbazioni fini a se stesse. Inoltre sono fermamente convinto che qualsiasi classificazione della musica abbia un fondo di razzismo. Non esiste la musica d’intrattenimento e quella no. Come non esiste la musica classica o il jazz o il rock. Come diceva un grande saggio “esistono due tipi di musica, la buona musica e tutto il resto”
Bene, è evidente che siamo di opinioni diverse. Spero che le lettrici e i lettori abbiano apprezzato questo appassionato scambio.
Bello questo gioco!
Lo sguardo e il portamento. Ambedue si realizzano quando sono presente nel momento, quindi mi sento in relazione.
A proposito della regalita’. Qualcosa del genere io l’avverto quando sento su di me
uno sguardo vivo, penetrante e intelligente.