L’emancipazione non è affatto incompatibile con l’Islam.
Ne è assolutamente convinta la 42enne Souad al-Shammary, teologa balzata improvvisamente all’onore delle cronache per aver osato sfidare l’establishment religioso saudita. Uno scontro inevitabile, alla luce della consapevolezza raggiunta al termine di un percorso interiore tormentato ed emblematico.
Lei stessa, educata al salafismo (corrente sunnita che rimanda alla rigida esegesi della sharìa, o legge islamica) e al nazionalismo promulgato dal politico egiziano Sayyb Qubt (assurto a icona dell’estremismo) non aveva mai immaginato di poter giungere, un giorno, a ricusare in toto gli insegnamenti ricevuti. Del resto era cresciuta in seno a una tribù beduina di pastori stanziati ad Ha’il (capoluogo-oasi della selvaggia provincia omonima a nord di Riyadh): un’esistenza scandita dal lavoro di tosatura delle pecore e dagli studi religiosi, culminati nella laurea in scienze islamiche conseguita presso il locale ateneo. Nessuna occasione di confronto con il contesto circostante, ma solo accettazione passiva dei dettami imposti dalla tradizione.
Fino all’illuminazione, giunta a fronte di due unioni fallite e una lotta personale contro le incongruenze e gli azzardi insiti nella tendenziosa interpretazione dei testi sacri da parte dei leader clericali. “L’effettiva presa di coscienza della realtà è avvenuta qualche tempo fa, allorché, dopo aver saputo che mi ero risposata, il mio ex coniuge si era affrettato a ricorrere in tribunale per ottenere la custodia di nostra figlia. Tutti mi osteggiavano, ripetendomi che si trattava della volontà di Allah, perché l’Islam non contempla la coabitazione di una bambina con un uomo diverso dal padre. Credevo di impazzire. Fu in quel momento che cominciai a dubitare dei principi divini: Dio infatti non avrebbe mai potuto decretare la separazione di una madre dalla propria creatura. Trascorrevo le ore a pregare, confidando in un miracolo. E rileggendo attentamente il Corano ho appurato che non esistono sure a favore di simili abusi“.
Complice la competenza in materia, Souad (reduce dal secondo divorzio e con altri cinque figli a carico) ha quindi deciso di votarsi interamente alla causa femminile, tanto da divenire in breve una delle più autorevoli attiviste religiose del Regno Saudita. “I miei diritti non contrastano con la fede ed esigo di essere ascoltata dai vertici competenti“.
Si è servita di ogni mezzo a disposizione per sensibilizzare l’opinione pubblica: fattore che le ha comportato, nel 2014, l’assoluto divieto di espatrio e tre mesi di detenzione, per “sovversione“, nel carcere femminile di Bridam, a Jiddah. Tuttavia non ha desistito.
Dal forum online Free Saudi Liberal Network – fondato insieme al blogger Raif Badawi (condannato a 10 anni di reclusione e mille frustate), esteso a oltre 270mila followers – ha proseguito la sua propaganda rivendicatoria, spesso evidenziata da immagini irriverenti ed eloquenti (non ultima quella di barbute guide spirituali corredate da ironiche didascalie quali “La barba fluente non è garanzia di equità: i detrattori del Profeta Muhammad l’avevano più lunga“).
Circostanza che ha indotto Sheik Abdullah al-Manee, membro del Consiglio religioso, a tacciarla in termini di “maliziosa” e “criminale da punire per oltraggio a figure eminenti dell’Islam“. Ma tant’è.
Determinata a infrangere i tabù che tuttora gravano sull’altra metà del cielo ha reagito alle accuse intensificando gli attacchi verbali all’influente clero sunnita (presunto detentore della verità suprema) e rinnegando l’imprescibìndibilità, ai fini etici, della cieca ubbidienza alle norme.
L’obbligo di indossare il velo, innanzitutto. “Il rispetto delle norme di abbigliamento non è indispensabile. Una donna deve essere libera di truccarsi. Avere cura del proprio aspetto non è affatto proibito. Io non sto violando le leggi sacre in cui sono specializzata“.
Uno sforzo immane che a quanto pare sta producendo risultati tangibili. “Prima mi vergognavo di cià che stava facendo“, ha confessato il fratello minore Fayez. “Non era degno di una ragazza. Poi però ho capito che è grazie a persone così che le donne possono ora disporre della carta di identità“. Del medesimo avviso la primogenita Yara (“Per me è un esempio da seguire. E’ sopravvissuta a peripezie inconcepibili“) e la più intima amica Sahar Nassief (“E’ totalmente sicura di ciò che afferma. Ha saputo tradurre il vissuto in un incentivo di rivalsa”).
La parità di genere evocata nella letteratura sacra è del resto il principale obiettivo delle miltanti sparse nel mondo arabo. “La discrimanzione deriva esclusivamente dal modo fuorviante in cui la religione islamica viene percepita“, ha ribadito Olfa Youssef, docente tunisina di diritto islamico ed esponente di spicco del movimento femminista globale Musawah Muslim.