Quando le parole non bastano anzi sbagliano. Soprattutto quando parlano di femminicidio.
Il 27 dicembre 2016 la pagina facebook di Narrazioni differenti segnala un articolo su Repubblica Torino sul femminicidio di Alessia Partesana in cui, nella ricostruzione che dovrebbe limitarsi ai fatti, vi sono elementi che evocano empatia per l’assassino anziché per la vittima.
Vado sul sito del quotidiano e di articoli ne trovo due, della stessa firma e a due giorni di distanza l’uno dall’altro, e devo fare i complimenti prima di tutto al titolista.
Nel primo titolo si legge “una piccola vacanza il movente che ha scatenato la furia del fidanzato”.
Dunque stiamo attente, noi donne, a prenderci delle piccole vacanze. E qual è il limite per non scatenare la furia dei nostri compagni? 5 giorni, 3, 2? Non è specificato. Se poi come in questo caso lasci a casa col babbo tua figlia, sei imperdonabile (se un babbo sta via di casa tre giorni nessuno ci fa caso, ma si sa che gli uomini oltre che cacciatori son viaggiatori).
Noi sappiamo che Alessia non è stata uccisa perché si è presa dei giorni di vacanza, ma quel titolo ci porta a comprendere l’assassino, a dirci che il femminicida si è comprensibilmente arrabbiato e in preda alla comprensibile furia ha ucciso.
Nell’articolo si legge poi che lui “l’aveva lasciata partire”, come a dire che aveva dato il permesso, ma nonostante tanta bontà il sospetto di essere lasciato era diventato un “chiodo fisso”. La colpa è dunque del chiodo fisso? E’ a quel chiodo fisso che dobbiamo fare il processo? E dunque a chi lo ha fatto germogliare, con la sua scelta di partire, con la sua scelta di interrompere la relazione?
Nel secondo articolo, due giorni dopo, il titolo non ci lascia scampo:
l’assassino “piange davanti al giudice, Sono un mostro”.
Nel caso non provassimo abbastanza compassione per il femminicida ecco che nell’articolo si legge che “Sono un mostro lo ha detto e ripetuto più volte in lacrime”, così che capiamo bene quanto lui sia dispiaciuto. Si legge inoltre che chiede della sua bambina “in continuazione”, per la precisione chiede “Ditemi come sta la mia cucciola”.
E nel caso un briciolo della nostra apprensione fosse ancora rivolta alla madre della cucciola, cioè ad Alessia che aveva 29 anni e ha fatto una morte atroce pugnalata alle spalle, ecco che l’articolo si conclude dicendoci che il Lopez Tacchini ultimamente era “terrorizzato all’idea che lei potesse lasciarlo. Lui, che era cresciuto senza un padre, non voleva lo stesso destino per la sua bambina, non voleva essere allontanato da lei”. Non manca alla fine la parola “follia”.
Io non sono una psicologa e quindi non mi permetto congetture sulla personalità e sulle fragilità di quest’uomo. Io guardo i fatti, e i fatti sono sempre gli stessi: una relazione che nasce come relazione d’amore, che finisce in tragedia quando lei decide di lasciare lui perché lui -che non è un mostro ma un uomo comune che compie un atto mostruoso, il che è diverso- non accetta che la relazione finisca per scelta dell’altra parte e impone quindi su quella storia e su quell’altra vita il suo potere di decidere che “O con me o meglio morta”.
Io guardo i fatti e leggo gli articoli e anche qui non c’è nulla di nuovo e dare notizie in questo modo significa rivittimizzare, ovvero infliggere nuova violenza alla vittima e alla sua dignità.
La notizia è che Alessia Partesana, di 29 anni, è stata trovata a terra, morta, in una pozza di sangue, che Marco Lopez Tacchini, quello che piange e chiede in continuazione della sua cucciola, alla cucciola ha ammazzato la madre con 30 coltellate alla schiena, perché si è assunto il potere di vita o morte sulla donna con cui conviveva.
Anno nuovo, nuovo femminicidio: il 2 gennaio leggo sul sito de Il Messaggero che a Roma un uomo ha tentato di uccidere la moglie, sopravvissuta alla caduta dal terzo piano.
Il titolo è: “Getta la moglie dalla finestra“.
Pensi a una bufala, in questi giorni in cui si parla di balle e post verità.
Invece no. Qui si parla proprio di gettare via una persona. Qui non si scherza, e nemmeno nell’articolo, dove si ipotizza addirittura che il femminicida abbia pensato «Così mi libero dei miei guai una volta per tutte» prima di compiere il gesto, definito nuovamente “folle”.
I complimenti qui vanno anche ai vicini della vittima, che ricordano le urla e quanto lui gliele stesse dando “di santa ragione”. Se si può comprendere il timore di intervenire in situazioni violente, oltre a chiamare il 112 prima dell’epilogo vien voglia di rispolverare quel gioco che tutti noi facciamo almeno una volta nella vita, cioè suonare i campanelli e scappare.
Le firme di questi articoli sono femminili, a testimoniare quanto la cultura patriarcale confonda e comprenda tutti e tutte, indistintamente.
Tra un copia incolla e l’altro, inoltre, varie testate online riprendono le stesse frasi, e alcune, come Today e Ottopagine, si sbizzarriscono con titoli così: “Roma, saluta il nuovo anno lanciando la moglie dalla finestra” oppure “Capodanno, butta la moglie dalla finestra per festeggiare”. Si potrebbe sorridere, se non fosse che è vero.
La notizia anche qui è che urge dare indicazioni precise, non di massima, a chi scrive di mestiere;
Abbiamo chiesto all’ordine dei giornalisti una “Carta del rispetto delle donne” e questi articoli, e ahinoi probabilmente molti dei prossimi, ne confermano l’urgenza. La formazione professionale è fondamentale, ma richiede tempi lunghi per coprire tutti gli ambiti e i territori. Affiancare alla formazione una Carta che spieghi il significato dei termini e dei verbi e degli aggettivi più comunemente utilizzati offrirebbe a chi fa giornalismo uno strumento di auto formazione rapido e di facile consultazione. La buona fede non ci basta, siamo contro la censura ma esigiamo preparazione. Le parole sono importanti e vanno scelte con cura, con consapevolezza e responsabilità.
Per aderire alla richiesta all’ordine dei giornalisti POTETE FIRMARE QUI.
3 commenti
Settima riga: qual è si scrive senza apostrofo
grazie per la correzione che è stata apportata
questi uomini non sanno amare