La narrativa in Sardegna ha dato in passato e continua a dare ottimi autori e libri di grande interesse, ma Maria Giacobbe è tutta da scoprire.
di Laura Candiani
La narrativa in Sardegna ha dato in passato e continua a dare ottimi autori e libri di grande interesse; fra gli uomini dobbiamo citare i ben noti Lussu, Satta, Dessì e poi Ledda, fino ad arrivare ai più vicini e contemporanei Fois, Niffoi, Todde, Onofri, Angioni, Soriga, Capitta, Locci, Mannuzzu, il poeta Masala… Riguardo alle donne, il richiamo al premio Nobel Grazia Deledda è inevitabile, visto che è rimasta l’unica italiana premiata per la letteratura, dal lontano 1926. La scrittrice nuorese meriterebbe ben più di una semplice citazione: la sua opera dovrebbe essere infatti riletta e studiata a fondo perché oggi è quasi caduta nell’oblio, e la si ricorda come un “classico” di cui quasi nessuno ha letto un rigo. Eppure proprio nel 2016 se ne è festeggiato il 90° anniversario, e 80° dalla morte.
Nomi femminili di rilievo oggi sono Rossana Copez, Milena Agus, Bianca Pitzorno (molto nota soprattutto come narratrice per i giovanissimi), l’emergente Vanessa Roggeri, Michela Murgia che spesso si pronuncia – con grande merito – a favore di molte battaglie femminili, compreso l’impegno per un linguaggio “di genere” sempre più diffuso e corretto.
Una scrittrice di cui ignoravo l’esistenza e che ho scoperto di recente è Maria Francesca Giacobbe, nata a Nuoro nel 1928, residente dal 1957 in Danimarca dove è ben più conosciuta che in Italia.
Per lei si potrebbero parafrasare le parole che lo scrittore Atzeni – prematuramente scomparso – diceva di sé: «sono sarda, sono italiana, sono anche europea». La sua esistenza – divisa in almeno tre fasi – risulta tutta interessante e quello che se ne può sapere risale esattamente a ciò che lei stessa racconta nei suoi libri, a carattere prevalentemente autobiografico. La sua infanzia inizialmente è felice: vive in una grandissima casa, fatta di complicate stanze e cortili, ha due genitori amorevoli, strenuamente antifascisti, ha tre fratelli e non le manca nulla, anzi, ha molto più dei coetanei grazie ai beni che la famiglia ha nelle campagne. Il padre, ingegnere, e la madre non prendono mai la tessera del partito e questo darà origine a una serie di problemi che la bambina avverte prima confusamente (il padre non trova lavoro), poi drammaticamente. Dino Giacobbe decide- con coerenza e condivisione da parte della moglie Graziella- di andare in Spagna, a combattere per la repubblica, così espatria clandestinamente: quella che ci si augurava fosse una separazione breve e transitoria, diventerà invece un intero decennio.
Questa fase della vita di Maria si fa difficile: la famiglia ha problemi economici, le stanze della grande casa si chiudono via via, la mamma viene continuamente sorvegliata, le illusioni di un ricongiungimento negli Usa sono bloccate dalla guerra, il mantenimento decoroso di quattro bambini non è semplice. Maria è assennata, sensibile, silenziosa, ma gracile, disappetente e malaticcia; inizia il Regio Ginnasio Liceo “Giorgio Asproni” intorno ai 10 anni, ma presto interrompe gli studi per motivi di salute. In seguito, tenacemente e contro il parere di molti, preferisce prendere il diploma magistrale perché vuole lavorare ed essere indipendente. Qui si apre una nuova fase dell’esistenza di Maria, narrata con straordinaria finezza e sensibilità nel suo libro più noto : Diario di una maestrina (Premio Viareggio e Palma d’oro dell’Udi).
Dal 1957 sappiamo che si trasferisce in Danimarca dove si forma una famiglia e ha due figli. Collabora con “Il mondo” di Pannunzio (1956-63), poi lei stessa ammette di aver poco coltivato il rapporto letterario con l’Italia. Intanto svolge intensa attività di traduzioni, saggi, giornalismo in varie lingue (italiano, danese, francese, spagnolo). Ha curato l’antologia Poesia moderna danese/ Moderne dansk poesi che ottiene il premio Dante Alighieri dell’Università di Copenaghen. Ha fatto parte della delegazione danese dell’Unesco in diversi incontri internazionali in Svezia, Norvegia, a Parigi; ha visitato molti paesi europei e ha partecipato a manifestazioni culturali (Asia, Africa, Usa, Canada, Medio Oriente, America centrale). Come “sentinella di pace” è stata nel Nicaragua sandinista (’84), come scrittrice ospite ha visitato Israele e la Corea del Nord (’86). In questa occasione rifiutò con una serie di pretesti di fornire il testo del discorso e -sul podio- cosa inaudita, non citò il Grande Kim, mentre all’aeroporto di Pyongyang un comico equivoco la fece scambiare per una “Nobel – writer”(con tutti gli onori del caso), anziché una “novel- writer”.
Ai suoi libri sono stati assegnati quasi tutti i premi letterari danesi; nel ’94 ha ricevuto il premio Beatrice dell’Accademia di Danimarca e dal ’96 il vitalizio dal Ministero degli Affari culturali in nome della gratitudine per i valori culturali di cui ha arricchito la società danese. In Italia tuttavia si sa davvero poco di questa gentile signora che pure -l’estate scorsa -è venuta a Nuoro per le celebrazioni deleddiane e che con grande merito la casa editrice Il Maestrale continua a pubblicare.
Mi vorrei soffermare prima di tutto su Diario di una maestrina (1957) perchè -a mio avviso -anche se si riferisce a un’epoca lontana e alla situazione specifica di una Sardegna quasi arcaica, è un’opera modernissima che meriterebbe una attenta lettura da parte dei docenti e delle docenti di oggi. Maria inizia il suo tirocinio con entusiamo, pure fra mille difficoltà, accompagnata dalle critiche delle coetanee che pensano al matrimonio con un buon partito, piuttosto che a sudarsi lo stipendio in luoghi “selvaggi” . Sul suo percorso nella provincia nuorese incontrerà scuole fatiscenti, aule gelide senza vetri alle finestre, banchi cadenti, paesi privi di fogne e acquedotto, amministrazioni che non forniscono neppure l’inchiostro, classi di trenta adulti (e lei è poco più di una ragazzina…) o addirittura di ammalati (tricofitici e tracomatosi) tenuti separati dai bambini sani. Ovunque tubercolosi, rachitismo, tigna, malaria; fortunato chi mangia qualcosa e quasi ricco chi ha di che coprirsi e possiede qualche animale, all’occorrenza ospitato direttamente nella casupola: se è troppo freddo almeno ci si riscalda tutti insieme. Racconta di una mamma che ha allattato al seno-insieme all’ultimo nato- quattro porcellini e di quanto fosse diffuso l’”aggiudu”, ovvero una serie di lavoretti fuori casa riservati alle bambine che spesso così non andavano a scuola, ma almeno potevano nutrirsi o ricevere qualcosa per sé e per la famiglia.
Scopre con stupore che -in terra di pastorizia- quasi nessuno beve latte e i bambini sono svezzati con il caffè e le fave secche. Il Diario però non è un triste elenco di lamentele e di recriminazioni, tutt’altro; Maria cerca di instaurare con alunni e famiglie un rapporto di fiducia, insegna con passione, gioisce per progressi che sembra-vano impossibili, è felice per un mazzolino di fiori di campo donati dal suo alunno sessantenne, riflette sui temi che stanno a cuore ai suoi alunni cresciuti troppo in fretta: tempo, famiglia, lavoro, contrasto ricchi-poveri. Racconta la gioia delle sue alunne a cui riesce a far fare una doccia calda grazie anche all’arrivo di ben 10 saponette dalla Croce Rossa svizzera!
Oppure descrive la noia di un paesino troppo moderno, dove le donne non indossano più l’abito tradizionale, vanno a fare acquisti in treno a Sassari e realizzano ricami e dipinti su stoffa assai raffinati; tutto troppo perfetto, quindi poco stimolanti anche le alunne; a Maria manca la sfida e la va a cercare altrove, a Orgosolo (che molti definivano allora “l’università del delitto”). Lì rimarrà tre anni e i paesani le diverranno amici :«i loro problemi sono i miei problemi- scrive- perché questa è la mia gente». E chiude il libro riferendo il sogno dei suoi alunni: in un’Italia che cambia, anche la Sardegna si modernizza e i bambini vorrebbero diventare “trattoristi”. Perché no?
Un secondo aspetto -nell’intera opera di Maria Giacobbe- riguarda la complessa e articolata riflessione sulla situazione storico-politica della Sardegna. Attraverso prefazioni e postille o opere a sé non manca mai di affrontare una serie di problemi che i “non sardi” ignorano o hanno sottovalutato, vedendo nell’isola solo la meta delle loro vacanze.
Anche senza rifarsi al lontano passato, alle dominizioni spagnola e poi sabauda, Maria racconta la speranza che si attuasse il Piano di Rinascita elaborato nel ’48; finalmente nel ’62 il Parlamento approva un finanziamento per 400 miliardi di lire, che serviranno però per opere di carattere ordinario e contingente, visto il lungo tempo ormai trascorso. Un dato essenziale da ricordare: non si realizzò la canalizzazione per irrigare i 180.000 ettari previsti; si arrivò a poco più di un decimo (nonostante le 26 dighe, in gran parte già costruite) perché non si volle metter mano al problema dei terreni privati. «Abbandonata al suo destino l’agricoltura, sabotata la pastorizia, smantellate o quasi le industrie estrattive », non si mise mai in atto la risoluzione firmata nel ’66 dalla Giunta Regionale per non disturbare i grandi elettori-grandi proprietari terrieri. In compenso -come altrove in Italia- nacquero assurde industrie che inquinarono mari pescosi (cartiera di Arbatax) e danneggiarono aree fertili, per non parlare del settore petrolchimico che portò proventi all’estero e dette scarsa occupazione ai Sardi. Le servitù militari fecero il resto (Perdasdefogu, poligono di Pratobello, Tavolara, basi Nato a Teulada, La Maddalena, Decimomannu): faceva comodo lo spopolamento di questa terra, tanto che -dice Maria- la parola “genocidio” non le sembrava più sproporzionata. Siamo nel 1975 quando scrive ciò e truppe in assetto di guerra combattono il banditismo con estrema determinazione proprio alle porte delle riserve naturali e del Parco del Gennargentu. Molte cose sono cambiate nel frattempo: qualcuna in peggio (come la cementificazione di vasti tratti di meravigliosa costa), qualcuna in meglio (parecchie basi militari sono state smantellate, si sono sviluppate attività produttive importanti, il turismo è diventato una risorsa significativa…). Una ferita però non si può rimarginare: fra il ’50 e il ’70 si calcola che siano emigrati oltre 350.000 Sardi, ovvero il 20 % della popolazione, «e la sua parte più attiva. La sola città di Torino ospita, e in parte occupa, 60.000 Sardi.»
Leggere dunque le opere di Maria Giacobbe vuol dire aprire uno squarcio su vicende sconosciute o rimosse e porsi domande che riguardano tutti e tutte.