LA GUERRA DELLA WOMEN’S BANIJ AL FEMMINISMO
Sebbene dalla rivoluzione del 1979 (culminata con il crollo della monarchia e la conseguente istituzione della repubblica) abbiano raggiunto obiettivi impensabili in altri stati islamici della regione, le iraniane continuano a essere oggetto di pesanti discriminazioni sociali e istituzionali. I risultati ottenuti a livello sanitario ed educativo (la percentuale delle studentesse negli atenei è stimata intorno al 60%) non sono infatti assolutamente sufficienti per azzardare l’inizio di un percorso davvero emancipatorio.
La supremazia maschile vigente non contempla alcuna forma di autonomia decisionale per l’altra metà del cielo: nè in ambito domestico (dove la subordinazione assoluta al marito è ritenuta imprescindibile ai fini della convivenza coniugale) né tantomeno nel contesto pubblico.
“Il viaggio che abbiamo appena intrapreso è purtroppo assai lungo“, ha ammesso Shahindokht Molaverdi, attivista, giurista nonché vicaria del leader Hassan Rouhani per il settore Women and Family Participation Affairs. “La meta è estremamente lontana, ma sono convinta che prima o poi riusciremo a raggiungerla. Uno dei punti focali dell’attuale programma governativo mira appunto a incentivare la partecipazione attiva delle cittadine al benessere del paese. Stiamo sostanzialmente cercando di offrire a tutte le medesime opportunità politiche ed economiche, in modo da consentire ad almeno il 10% di loro di accedere ogni anno a incarichi di potere. Ne deriverebbe la nostra maggior incisività sul piano operativo, a beneficio dell’intera collettività“.
Ambizioni nettamente contrastanti con la proverbiale intransigenza ostentata dalle autorità nei confronti delle militanti per i diritti umani, costantemente perseguitate, sottoposte a pressanti e brutali interrogatori da parte delle Guardie Rivoluzionarie e spsso incarcerate con l’accusa di “spionaggio e collusione con elementi esterni intenzionati a sovvertire il sistema statale” (le pubblicazioni del magazine Zanan-e Emrooz – pietra miliare del femminismo locale – sono del resto sospese dal 26 luglio scorso).
Eppure, paradossalmente, sono in parecchie ad avversare le velleità rivendicative delle connazionali. Donne che alla solidarietà e alla comunione di intenti hanno anteposto il rispetto incondizionato del retaggio patriarcale (e quindi il sessismo), principale ostacolo alla parità di genere. Esagitate che – malgrado gli impliciti condizionamenti – seguitano ad attribuire alla (presunta) autorità maschile una valenza simbolica e pratica pressoché assoluta.
Tra le più strenui fautrici della misoginia va indubbiamente annoverata Minou Aslani, alla guida della Organization of Women’s Basij Community, famigerta brigata volontaria al servizio del regime. “Le lotte egualitarie sono illegali e ed è dunque necessario che i giudici intervengano per scongiurarle. La presenza femminile in parlamento contribuisce soltanto a distorcere la nostra stessa natura. E’ una pretesa assurda, i cui effetti si evincono dallo stato di solitudine perenne in cui versano le occidentali. Sfortunatamente qualcuno insiste ancora a emularle, anche se non ha alcun senso“.
Per lei inoltre, persino le campagne informative e i progetti volti al contrasto di maltrattamenti domestici e soprusi in genere sarebbero da boicottare: “Lo scorso 25 novembre, la vicepresidente si è affrettata ad aderire all’International Day for the Elimination of Violence Against Women del 25 novembre, però non ha fatto nulla per agevolare la diffusione della virtù nella società“.
A fronte di simili presupposti, la drastica reazione delle autorità all’intraprendenza di coloro che osano sfidare la tradizione in nome della libertà (di cui le misure sempre più restrittive e coercitive costituiscono la massima espressione) appare quasi tragicamente inevitabile.