A cinque anni fu iniziata dalla madre al pattinaggio artistico su giaccio, approcciando così quella passione che accompagnò autostima e muscoli su podi e medaglieri internazionali.
Alta e slanciata più della media, aveva un’amica bassa e tarchiata che però si vantava che il vino buono stesse nelle botti piccole. La loro rivalità si esauriva nel confronto delle altezze, in realtà si amavano e stimavano vicendevolmente.
Sulla pista del ghiaccio, una si esibiva vincendo gare su gare e l’altra la sosteneva dagli spalti. A scuola, l’altra eccelleva in matematica e l’una l’incoraggiava e la proteggeva dalle accuse di secchionaggine.
Si dice che il calabrone non abbia una struttura atta al volo, ma che non sapendolo, vola ugualmente. Anzi, per l’esattezza, “La struttura alare del calabrone, in relazione al suo peso, non è adatta al volo, ma lui non lo sa e vola lo stesso.” Così avrebbe detto Albert Einstein, secondo la saggezza popolare. Mentre nella botte piccola, cresceva e maturava il vino buono, la slanciata calabrona pattinatrice vinceva ma accumulava inconsapevolmente disabilità. Non sapendo di avere un deficit nell’articolazione delle anche, sul ghiaccio volava ugualmente.
Dopo anni di usura, iniziarono di colpo i dolori. Non riusciva nemmeno più ad incrociare le gambe, a stare eretta, a camminare, persino a dormire. La matematica le consigliava di sostenere un intervento di artroprotesi bilaterale d’anca. La pattinatrice lo temeva, pur conoscendo la diagnosi: aveva le articolazioni di un’ottantenne. Si risolse a farsele sostituire con protesi di titanio, così resistenti che le sarebbero sopravvissute. A intervento ultimato, si ritrovò più alta di due centimetri. Infatti, ossa e cartilagini si erano consumate a tal punto da farla avvicinare negli anni alla matematica, che le era rimasta amica, confermando il detto popolare. Se non fosse stata buona, all’ascendere sui podi della notorietà della pattinatrice, se ne sarebbe allontanata.
Il calabrone ha un battito d’ali pari a duecentotrenta battiti al secondo, molto più veloce di altri insetti di dimensioni minori, addirittura cinque volte superiore a quello di un colibrì.
Ed è proprio questa velocità incredibile che gli consente di ottenere una spinta sufficiente a mantenerlo sospeso in aria, oltre che ad un movimento alare inconsueto che contribuisce a generare portanza.
La leggenda del calabrone – in realtà bombo – che non può volare, sembra nascere negli anni 30 del ‘900 all’Università di Gottingen, durante una cena, quando uno scienziato svizzero che allora conduceva studi sulla dinamica dei gas sembra aver posto questo problema: “Che proprietà aerodinamiche hanno le ali del bombo per permettere loro di volare?” Dopo alcuni rapidi calcoli, lo scienziato si accorse di come, per quanto il bombo riesca effettivamente a volare, l’aerodinamica sembrasse vietarlo. Secondo le ricerche dell’ingegnere aeronautico John H. McMasters, la fonte certa più antica è una frase scritta nel 1934 da un entomologo, Antoine Magnan, nel libro Le Vol des lnsectes, una pietra miliare nel settore. Magnan scrisse: “Ho applicato agli insetti le leggi della resistenza dell’aria e sono arrivato con il signor Sainte-Lague (il coautore del libro, ndr) alla conclusione che il loro volo è impossibile.” Egli però aggiunse anche: “Non ci si dovrebbe sorprendere del fatto che i risultati dei calcoli non coincidano con la realtà.”
La frase come la saggezza popolare conosce, venne infine pronunciata da Igor Ivanovic Sikorskij, pioniere dell’aviazione, non dal celebre matematico. In effetti, osservando l’apertura alare del bombo in rapporto alla dimensione della “fusoliera”, anche un profano rileva che le ali sono apparentemente troppo piccole.
Dal 1930 però la comprensione dell’aerodinamica delle ali degli insetti è cresciuta enormemente. Fu negli anni ’50 e ’60 che si poté cominciare a osservare al rallentatore il volo del bombo: la frequenza dei battiti è così alta che l’osservazione al rallentatore richiede infatti apparecchiature molto sofisticate. Si poté quindi scoprire che il movimento delle ali del bombo è estremamente complesso: comporta la torsione e l’oscillazione delle ali, quindi molto diverso da quello osservabile negli uccelli.
I calcoli che avrebbero provato l’impossibilità di volare da parte del bombo erano basati su un trattamento lineare semplificato dei profili alari oscillanti, metodo che presumeva oscillazioni di bassa ampiezza senza separazione di flusso e che non teneva conto del cosiddetto stallo aerodinamico, una separazione appunto di cotal flusso d’aria che induce un ampio vortice al di sopra dell’ala, il quale per breve tempo genera una portanza pari ad alcune volte quella del profilo alare durante il volo regolare. Simulando tale stallo aerodinamico (incontrato ad ogni oscillazione dalle ali del bombo), si poté stabilire che il bombo rispetta appieno le leggi dell’aerodinamica e non ha alcun motivo per non volarsene tranquillo di fiore in fiore, facendo per altro una gran faticaccia. Come del resto fece per tutta la sua vita sportiva la pattinatrice. Con la sostanziale differenza che il bombo non deve subire artroprotesi a causa dell’usura.
La sempre più slanciata pattinatrice non sapeva se lasciarsi sprofondare nel sentore di volgarità odierno, o se aderire, come faceva da sempre, alla raffinata eleganza di linguaggio che ci si sarebbe aspettati da lei. Aveva sempre usato parole sostitutive e metaforiche per il suo posteriore, passando dall’ormai stra-consumato Lato B al meno consueto cucù. Alla fine delle sue meditazioni, pensò che allo scopo di essere più accettabile dalla massa, fosse utile adeguarvicisi e chiamarlo CULO DI TITANIO.