Sul finire degli anni ’80, a ventun anni arrivò vergine al matrimonio, perché avrebbe voluto sposarsi in chiesa pura come prescrive la dottrina in cui credeva, quando le sue amiche a dodici o tredici anni avevano già perso in realtà la loro innocenza.
Ma a lei non interessava essere presa in giro per i valori fondanti in cui aveva riposto fede. Già quei valori avevano vacillato sotto i colpi della rivoluzione sessuale, però il poter indossare lo stereotipato abito bianco che simboleggiasse la sua purezza era per lei un obiettivo imprescindibile. Anche il futuro marito era d’accordo, nonostante avesse eseguiti maldestri tentativi impuri, riconosceva il valore di quel credo, rassegnandosi a ottenere solo dei NO prima delle nozze.
Tradizioni popolari prescrivevano che, perché il matrimonio fosse felice e durasse per sempre, durante la cerimonia la sposa indossasse qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di blu, qualcosa di prestato, qualcosa di regalato. Durante il pranzo nuziale, senza il taglio della cravatta il matrimonio sarebbe andato inevitabilmente a catafascio. Inoltre, al futuro marito è fatto divieto di vedere l’abito della sposa prima delle nozze, e se durante la cerimonia dovesse piovere, il maltempo sarebbe latore di fortuna per gli sposi.
La sposa promessa indossò l’abito dello sposalizio di sua madre, un abito degli anni ’60, rispondendo così d’un colpo solo a due delle prescrizioni della tradizione, qualcosa di vecchio e qualcosa di prestato. Acquistò una giarrettiera blu che occultò sotto l’ampia gonna di tulle, un’amica le regalò orecchini di perle barocche. Indossò un giacchino di marabù che rispose all’esigenza di qualcosa di nuovo. Impedì al futuro sposo di vedere l’abito da sposa. Pregò che quel giorno, 24 aprile, giorno di San Fedele, piovesse a dirotto. E piovve a catinelle da mane a sera. E tutto procedette proprio come da prescrizione tradizionale. Gli invitati si divisero la cravatta dello sposo, riempiendo in cambio dei pezzetti di seta una damigiana di soldini, e già che c’erano, anche la giarrettiera blu della sposa fece la stessa infame fine. Gli sposi così racimolarono il necessario per andare in viaggio di nozze a Ischia, dove trascorsero la loro prima settimana d’amore.
Un proverbio sulle nozze in Lombardia recita: tò miée pénséch fin ai trenta, dopu pénséch amò un pô… e finéss col tôla no. – A prender moglie pensaci fino ai trent’anni, poi pensaci ancora un po’… e finisci col non sposarti più. Saggezza popolare cui dare ascolto.
La vita matrimoniale procedeva nella serenità di una coppia che si amava vicendevolmente e si rispettava nei tempi e nelle modalità del convivere comune. Il San Valentino dell’anno seguente ebbero il rapporto che avrebbe donato loro in novembre la figliolanza. Sconcertati dalla novità ma felici, la sposa ancora novella era rapita in estasi e, pensando al benessere del pupo, non si concedeva più tanto al marito.
Mentre la pulzella si elevava in gravidanza beata, il fanciullo se la faceva con un’amica. Di lei. Più giovane di 7 anni. Non c’è giarrettiera blu, qualcosa di vecchio, qualcosa di prestato, qualcosa di regalato, tagli di cravatte o piogge torrenziali o la protezione di San Fedele che possano evitare le corna.
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