Le semitiche,mogli, madri, sorelle di immigrati originari di paesi del Maghreb (Tunisia, Algeria e Marocco), Egitto, Libia e Medio Oriente. Giunte in Occidente al seguito dei rispettivi uomini, in assenza dei quali si ritroverebbero forse proiettate una vita socialmente diversa.
Passano silenziose, sole o in gruppetti, informi nei loro lunghi abiti. Figure quasi evanescenti sullo sfondo frenetico di un territorio in piena attività. Sembrano volersi sottrarre a sguardi estranei, indagatori e ipotetici violatori di un’intimità gelosamente custodita e celata tra le pieghe di tessuto. Sono le semitiche: mogli, madri, sorelle di immigrati originari di paesi del Maghreb (Tunisia, Algeria e Marocco), Egitto, Libia e Medio Oriente. Giunte in Occidente al seguito dei rispettivi uomini, in assenza dei quali si ritroverebbero forse proiettate una vita socialmente diversa. Non dimenticano la nobile tradizione religiosa di cui portano il simbolo più evidente, il foulard a protezione del capo, sulla cui liceità l’occidente ha speso fiumi di parole. Musulmane o cristiane (copte): l’ingente retaggio storico-culturale non permette simili sottili distinzioni qualitative, in quanto l’usanza di nascondere i capelli sotto un ritaglio di stoffa ha caratterizzato e – in certe occasioni caratterizza ancora – anche l’ebraismo e il cattolicesimo.
Certo è, in ogni caso, che le polemiche sorte sul tipo di abbigliamento adottato dalle islamiche non si è finora rivelato utile ad appianare i (molti) contrasti che impediscono di argomentare in termini realistici di integrazione. Nell’immaginario collettivo occidentale infatti, l’hijiab (da non confondere con il chador – indumento che lascia scoperto solo il viso – o il burqa, volto a ricoprire interamente il corpo dalla testa ai piedi, precludendo persino una visuale soddisfacente) continua a simboleggiare un emblema di arretratezza, sottomissione, schiavitù.
E’ proverbiale che l’universo femminile islamico non goda di autonomia e sia assolutamente privo di autonomia decisionale. Eppure, originariamente, parecchie avevano individuato nel velo (indossato in ottemperanza ai criteri di distinzione applicabili alle mogli del Profeta Muhammad, da lui tenute in grande considerazione anche sotto il profilo politico) un simbolo di autorità, non di oppressione. Adottandolo quindi, speravano di poter beneficiare di maggior considerazione da parte dei mariti.
In linea generale, le figlie dell’Islam non amano parlare di sé. Piuttosto schive con gli estranei ostentano in privato una spiccata loquacità. Formano ritrette comunità all’interno di un microcosmo culturale inserito in un contesto assai più esteso. Non è semplice conquistarne la fiducia (la secolare diffidenza nei confronti del laicismo seguita ad emanare un influsso potente), ma dalle frasi stentate pronunciate in un idioma acquisito si evince la profonda lealtà ai valori tipici delle aree di provenienza, nonché il riconoscimento indiscutibile della fedeltà quale elemento fondante dell’istituzione matrimoniale (a quanto pare, il tradimento coniugale, almeno dal punto di vista femminile, parrebbe quasi inconcepibile; ma trattandosi di esseri umani, il condizionale è d’obbligo).
Le seguaci di Allah non si ritengono affatto discriminate o penalizzate, sebbene non perdano occasione per denunciare l’inadeguatezza di alcune strutture socio-sanitarie, così distanti dalle particolari esigenze rivendicate: troppo esiguo il numero dei medici di sesso femminile (molte rifiutano di sottoporsi a visite mediche effettuate da uomini) e ospedali non sufficientemente attrezzati per far fronte ad evenienze particolari quali l’infibulazione.
L’impatto con la realtà occidentali insomma non sembra aver minimamente intaccato le convinzioni teologiche alla genesi dell’essenza individuale: il verbo divino resta il fulcro dell’esistenza, ovunque e comunque, a dispetto di qualsiasi tentativo esterno di ingerenza. E pur intenzionate ad avvalersi, in qualità i cittadine, dei medesimi diritti riconosciuti alla popolazione locale (i doveri non vengono menzionati), le musulmane non vantano assolutamente ambizioni esulanti dalla quotidianità domestica.
Sono in poche, del resto, a privilegiare l’emancipazione economica: è il nucleo familiare di appartenenza a sancirne sia lo status sociale che il ruolo rivestito in seno alla collettività (l’obbedienza ai dettami imposti dal Corano ha ormai assunto una valenza simbolica distintiva della loro stessa condizione di immigrate). Nessuna tuttavia è disposta ad accantonare la speranza in un destino meno problematico, almeno per le giovani generazioni.
Una dimensione in cui le barriere tese a ostacolare il processo integrativo possano essere finalmente abbattute a favore di una società davvero multietnica. A prescindere dall’eccessivo permissivismo insito nelle dinamiche della modernizzazione, causa principale del degrado etico: “Per noi l‘ostentazione ossessiva del corpo e la tolleranza nei confronti della nudità non sono indici di evoluzione, bensì di schiavitù costante“, hanno candidamente ammesso. “Anziché continuare a sprecare energie assecondando istinti che non le appartengono, la donna dovrebbe imparare ad affilare nel giusto modo le armi a sua disposizione “.
1 commento
Certo musulmane come descritte ce ne sono tante. Ci sono anche musulmane del magreb arrivate in Italia con abiti normali, europei cioè, e fagocitate da comunità religiose locali on Italia che hanno imposto loro il
Velo e abiti con maniche lunghe. Mariti che le hanno sposate nei loro paesi con abiti europei e capo scoperto che dopo, in Italia hanno imposto il velo per non essere denigrati dai concittadini enigranti come loro, ed accusati di aver appeso il capoello al chiodo, in Italia. Ne ho vidte davvero tante di wueste situwzioni. Quando arrivano in Italia queste donne dovrebbero essere integrate subito, non per scimmiottare noi, ma perché si sentano islamiche devote anche senza necessariamente stare alla larga dalle donne di altre religioni e altre culture. Secondo me molti imam ci giocano per non perdere adepti vantaggiosi, noi siamo timide…e la cultura spesso latitante fa il resto. Da anni prima per lavoro mio e dopo per lavoro di un mio figlio, interagisco con giovani islamiche di tutti i tipi e ptovenienze, quasi tutte devote… anche quelle che si concedono una birra tra amici e non portano il
Velo…ma i capelli al vento…anche se poi vanno in spiaggia con un prendisole sopra al costume che tolgono giusto il tempo per tuffarsi… si, non è facile conquistare la loro fiducia, ma se non si sentono “minacciate” di espopriazione si aprono. Sono in po’ come erano le ragazze degli anni sessanta… più o meno. I maschi di famiglia non le comandano strettamente … sono loro che lasciano correre molto, in genere i maschi le ascoltano, se presi con le giuste maniere, e loro sanno fare questo. Siamo diverse…questo si…ma ho fiducia…ci si può integrare…se non si hanno preconcetti…soprattutto con quelle che hanno studiato … una volta una mi disse: il nostro modo di pregare può essere diverso, ma noi ci incontriamo in Maria…che è l’unica donna nel Corano nominata col suo nome e non come sorella di, o madre di, o sposa di…come le altre…è importante per le nostre religioni in uguale misura ed e’ donna come noi… e chi lo avrebbe immaginato. Ecco…dateminuna leva e vi sollevero’ il mondo… forse è da ciò che ci unisce che dobbiamo iniziare, non da ciò che ci distingue…