Il Gay Pride nasce per celebrare e ricordare i fatti accaduti il 28 Giugno del 1969 allo “Stonewall Inn”, un bar frequentato, tra l’altro, da omosessuali, lesbiche, transessuali.
Da allora di tempo ne è passato…Ma dov’è l’attualità dei pride?
di Nicolao Conchita
Al grido di “Gay Power!” comincia una guerriglia urbana che conterà un migliaio di manifestanti, l’impiego di 400 poliziotti, 13 arresti ed un numero imprecisato di feriti. A memoria di quei fatti, inizio simbolico del movimento di liberazione omosessuale, in Italia e all’estero, è ormai abitudine organizzare manifestazioni detti “gay pride” (letteralmente: di orgoglio/fierezza gay).
Da attivista militante ho partecipato al primo gay pride nazionale a Roma nel 1994 ed a quelli successivi, negli anni che seguirono.
Non sono mancata al World Pride del 2000 a Roma cui aderirono, come stimato dalle forze dell’ordine, circa 500.000 persone: la città era così gremita di manifestanti che, quando la testa del corteo arrivava a destinazione (il Circo Massimo), la coda doveva ancora riuscire a partire.
Erano gli anni in cui mi guardavano con sospetto quando indossavo abiti leggermente maschili.
Erano gli anni in cui il mio fruttivendolo ammiccava se mi vendeva dei cetrioli o sorridendo, mi consigliava l’acquisto di banane.
Erano gli anni in cui con l’outing si rischiava il lavoro, la casa, gli affetti, l’incolumità fisica/psichica, la vita stessa.
Erano gli anni in cui “i gay, questi sconosciuti” rivendicavano il diritto all’autodeterminazione sessuale: una sessualità libera e razionalizzata, distinta dall’affettività, tale da massimizzare gli orgasmi, a volte risultato di approcci anonimi, veloci, promiscui.
Con fierezza reclamavano visibilità, stanchi di “esistere” solo nell’ombra: le saune, le dark room, i cinema, i bar e le discoteche gay, i luoghi di “battuage” all’aperto.
Da allora di tempo ne è passato..
Oggigiorno non occorre che la comunità gay esca allo scoperto: allo scoperto c’è già.
Le nuove generazioni cresciute tra chat, social network, siti web, feste “a tema”, sembrano essere abituate ad una sessualità fluida o, quantomeno, più morbida.
La dark room sono ormai retaggio del passato.
Lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer, intersessuali, asessuali (LGBTQIA), conquistano, e spesso monopolizzano, merchandising, spot, programmi televisivi, radiofonici, articoli giornalistici, pellicole cinematografiche, iniziative culturali, manifestazioni sportive, altro.
Immancabili come l’almanacco del giorno o le previsioni del tempo, i media dedicano loro un po’ di spazio: tutto è gay friendly. Il “diverso” e le diversità sono cool. Il privato “alternativo”, sbattuto in pubblico, è trendy: non fa né notizia né scalpore, ma fa audience, null’altro.
Del resto la stessa platea omosessuale è cambiata: più visibile e con maggior consapevolezza, rivendica pari dignità, pari diritti ed una integrazione-assimilazione nell’ordine eteronormativo.
Il prossimo 3 giugno si svolgerà a Reggio Emilia il REmilia pride, il primo pride dell’area mediopadana.
Non so se vi parteciperò: in genere non perdo tempo con le cose inutili ed i pride, così come sono, mi appaiono inutili, spesso deleteri.
Per quanto sfilino persone comuni, l’attenzione è rivolta a striscioni provocatori, grosse tette siliconate, capezzoli con piercing, deretani s-coperti da minuscoli perizomi, abitini in latex, tacchi 20 cm., paillettes, gridolini estatici, sculettamenti, immancabili baci omosex con scambio di almeno mezzo metro di lingua..
Il risultato è una sfilata carnascialesca, una processione folcloristica che fa dell’esagerazione il marchio di fabbrica: un palcoscenico con un’estetica ed un linguaggio di dubbio gusto.
Ma il trash e la volgarità ledono i diritti, li mortificano, ne sminuiscono il valore: il rischio è radicalizzare stereotipi, pregiudizi, gretto umorismo.
Solitamente grande assente è il dibattito sui temi che riguardano le diversità.
La piattaforma politico- culturale, in genere, è totalmente assente o, peggio, autoreferenziale: di convegni, incontri, iniziative, idee, proposte di riforma, c’è molto poco. Resta solo retorica.
Allora mi chiedo, dov’è l’attualità dei pride?
Serve davvero questa inutile ostentazione di diversità, di sfrontata appartenenza?
Quando parliamo di comunità LGBTQIA, di chi parliamo?
Della libertà sessuale rivendicata nei primi pride resta ben poco e appare imbrigliata in un acronimo lunghissimo: LGBTQIA.
Attraverso un minuzioso lavoro di catalogazione, ciascuna sfumatura sessuale risulta ricondotta in precisi sottogruppi: specifici, omogenei e circoscritti. A mio parere, non serve introdurre ulteriori standard di riconoscimento: qualsiasi scelta a senso unico è un’autolimitazione.
Io sono lesbica. Io sono lesbica e posso amare.
Io sono lesbica e posso amare uomo o donna che sia, a prescindere dalla mia omosessualità.
Io sono lesbica e posso godere, a prescindere dall’amore.
La libertà di scelta è un diritto: a nessuno spetta il controllo di ciò che avviene nelle mie mutande o nel perimetro del mio letto. Questo è il punto.
Un vero movimento di liberazione mette all’ordine del giorno la libertà all’autodeterminazione sessuale: si tratta di andare oltre l’affermazione di sé come membro di comunità “Altra”.
Liberazione, oltre che identità.
Se l’emancipazione politico-istituzionale si realizza col diritto, l’emancipazione culturale si costruisce grazie ad un progetto di liberazione ed emancipazione collettiva che passa anche attraverso un linguaggio comune inclusivo delle diversità.
Si tratta di reclamare ed esigere eguali diritti non in quanto membri della comunità LGBTQAI, “genere speciale” da tutelare, ma semplicemente perché membri del “genere umano” libero.
Si tratta di sviluppare un modello di identificazione comunitaria che non tenga conto della divisione binaria eterosessuale/non eterosessuale, né di altre.
“I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”, scriveva il filosofo Ludwig Wittgenstein.
Le parole scelte quotidianamente caratterizzano il modo di percepire la realtà..
Attualmente non penso che in Italia un membro della Comunità LGBTQIA sia più di altri esposto alla perdita del lavoro, della casa, degli affetti, dell’incolumità fisica/psichica, della vita.
Globalizzazione capitalistica, profitto, competitività, flessibilità, produttività: è il nuovo tantra e riguarda tutti.
* In caso di gravidanza e maternità, le aziende propongono “dimissioni in bianco”, contratti non rinnovati, mancata fruibilità di congedi parentali (compresa la “maternità facoltativa”) o impongono di farsi devolvere l’assegno Inps per maternità, per pagare lo stipendio al sostituto (come recentemente denunciato a Treviso).
* In caso di invalidità psico/fisica, le aziende italiane preferiscono pagare sanzioni piuttosto che assumere cosicché, dei circa 750mila iscritti alle liste speciali di collocamento obbligatorio, oltre l’80% non ha un lavoro. Così come preferiscono licenziare, piuttosto che individuare soluzioni “altre” per il reimpiego del lavoratore con invalidità sopraggiunta.
* In caso di delocalizzazione o riorganizzazione produttiva, le aziende possono licenziare, anche se non in difficoltà economiche, se decidono di fare a meno di una funzione per incrementare la redditività (come da recente sentenza dalla Corte di Cassazione).
* In caso di non acquiescenza alle politiche aziendali o di forte antagonismo, le ritorsioni sono licenziamento, demansionamento, mobbing. Attuate per liberarsi di personaggi scomodi (spesso sindacalisti o whistleblowers) colpevoli di aver denunciato situazioni di non sicurezza di impianti, attrezzature, ausili, di rischio ambientale, di carenze igieniche, di frodi. Soggetti che ne subiscono le conseguenze, spesso in totale solitudine come Riccardo Antonini ferroviere in forza a Rete Ferrovie italiana – RFI, licenziato dopo aver svolto il ruolo di consulente tecnico a titolo gratuito a favore dei familiari delle vittime del disastro ferroviario del 29 giugno 2009 di Viareggio.
E poi esodati, cassintegrati, esuberi, .. : tutti senza lavoro.
Non penso vi sia urgenza di interventi a salvaguardia della incolumità fisica/psichica dei membri della comunità LGBTQIA, sicuramente non più di quanto possa dirsi per homeless, extracomunitari, anziani, disabili, vittime di (cyber)bullismo, donne.
Nel 2016 in Italia i casi di femminicidio sono stati 120: in pratica, una donna ogni tre giorni veniva assassinata. Accanto a queste molte altre subivano, senza denunciare, le violenze fisiche, psicologiche, sessuali subite da mariti, ex compagni, familiari o.. dalle stesse Istituzioni.
E’ violenza istituzionale:
* assistere all’assoluzione del proprio stupratore perché, come deliberato tribunale di Torino, durante lo stupro “si è provato disgusto ma non si è urlato, né pianto”. Come se vi fosse una fisiologia dello stupro con comportamenti logici e lineari cui attenersi durante e dopo l’aggressione..
* assistere all’assoluzione dei propri stupratori perché, come deliberato tribunale di Firenze, dalla ricostruzione della vita privata e delle abitudini sessuali della vittima, appare soggetto “disinibito, creativo, in grado gestire la propria (bi)sessualità, di avere rapporti fisici occasionali”. Per la Corte quindi, meritevole di stupro?
* assistere alla prescrizione del reato dei propri stupratori a causa della lungaggine del procedimento giudiziario..
E’ violenza istituzionale:
* non riuscire ad abortire in una struttura sanitaria pubblica per la carenza di medici non obiettori di coscienza;
* assistere impotenti alla riduzione dei finanziamenti destinati ai Centri antiviolenza che aiutano e assistono le donne in difficoltà, con servizi di ascolto, accoglienza in case-rifugio, supporto legale e psicologico.
E’ discriminazione istituzionale:
* l’approvazione dei nuovi LEA che, tra le prestazioni garantite dal Servizio Sanitario Nazionale, includono le tecniche di procreazione medicalmente assistita ma non la diagnosi preimpianto ed i test genetici. Fondamentale in caso di patologie geneticamente trasmissibili, vi si accede a pagamento: è evidente la discriminazione reddituale;
* il requisito della residenza o del lavoro protratti per 5 anni, della reciprocità, della quota massima riservata, nell’accesso all’edilizia residenziale pubblica per le persone immigrate (italiane ed estere);
* il requisito della residenza o del lavoro protratti per 15 anni dei genitori, nell’accesso all’asilo nido a bimbi di famiglie immigrate (italiane ed estere), come da recente norma del Consiglio regionale Veneto.
Nè serve un garantismo normativo specifico per l’omofobia: gli strumenti giuridici non mancano.
La piena uguaglianza non la si ottiene con istituti giuridici ad hoc, appositamente creati per i gay poiché, paradossalmente, creano diseguaglianza sia per chi ne beneficia sia per chi ne è escluso (v. unioni civili).
Per il riconoscimento e la tutela dei diritti inviolabili fondamentali, meglio contare su un diritto positivo ispirato al principio di eguaglianza piuttosto che confezionato su misura in base alle preferenze sessuali.
Da cittadina italiana, vorrei poter accedere all’istituto matrimoniale: l’unione civile istituto specifico per gli omosessuali mi offende fortemente poiché sancisce legalmente una diversità.
Eppure i miei doveri di cittadina omosessuale sono gli stessi di un qualsiasi altro cittadino eterosessuale.
A pari doveri, dovrebbero corrispondere pari diritti.. Del resto o si è uguali o si è diversi.
Diritti seri. Non frattaglie di diritti, frutto di patteggiamento politico al ribasso.
Il problema non è la normativa, ma la normattiva.
Il drammaturgo romano Publilio Siro scriveva: “L’assoluzione del colpevole condanna il giudice”. Ma anche il politico e chi a qualsiasi livello è preposto a fare cultura, aggiungo io.
Non si può pensare di affidare la protezione delle libertà fondamentali a una sequenza di codici e codicilli. Non si commette un reato non perché come tale sanzionato, ma perché ce lo impone l’etica privata e sociale abbracciata. E’ una questione culturale, non normativa.
Né si può pensare possa bastare una campagna di sensibilizzazione mediatica specifica: non si tratta di condannare un comportamento errato ma di educare a tenerne uno corretto. Il rischio altrimenti è di fare del populismo a colpi di demagogia.
Fintanto che i valori fondanti della nostra società sono caratterizzati da relazioni di potere tra un modello dominante ed un modello “Altro” inferiorizzato, qualunque trasgressione dell’ordine dicotomico precostituito, rappresenta un atto di insubordinazione che, proprio in virtù di questi valori, genera e “giustifica” l’atto di violenza. Se si opta per un “modello naturale” è inevitabile che si creino delle relazioni asimmetriche tra ciò che è percepito come il “naturale” e ciò che è vissuto come il “non naturale”.
Gli atteggiamenti discriminanti sono coerenti, congrui, conformi alla visione strettamente binaria che domina ogni ambito della società (uomo/donna, eterosessuale/non eterosessuale, abile/disabile, bianco/nero, ricco/povero, giovane/anziano, occupato/disoccupato, cristiano/islamico, occidentale/orientale, sante/puttane, bello/brutto, magro/grasso, savio/matto, etc.).
Quindi mi appare semplicistico pensare che basti lavorare sul soggetto discriminante.
Non si tratta di sperimentare una diversa sensibilità personale: il lavoro è più complesso e coinvolge tutti.
Occorre sviluppare e proporre modelli culturali “altri”, ricercare nuove espressioni di educazione civica, abbracciare una visione del mondo maggiormente inclusiva e rispettosa delle scelte di vita di ciascuno, ampliare i registri sociali, culturali, linguistici, introdurne di nuovi.
Naturalmente tutti i cambiamenti presuppongono atti di insubordinazione, di non allineamento, di disobbedienza civile.
E allora ben venga una marcia dei diritti.
Un’occasione per porre al centro del sistema l’individuo, cittadino del mondo, nel rispetto dei valori universali contenuti nella Carta Costituzionale e ribaditi nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Una marcia espressione di cittadinanza attiva, di solidarietà politica, di identificazione comunitaria.
Una risposta civica al disagio economico, culturale, sociale; contro qualsiasi forma di violenza, marginalità, isolamento, oppressione, sfruttamento, indifferenza; contro i soprusi e le discriminazioni, che bruciano anche di più se provengono dalle Istituzioni.
Una marcia in cui possa prender posto un universo sociale variegato, fianco a fianco, per rivendicare il diritto di adottare, di procreare, di abortire, di scegliere quali cure accettare, quali rifiutare, chi amare, con chi godere, con chi costruire una famiglia. Una Rete di condivisione delle altrui solitudini per il diritto ad un lavoro dignitoso e senza aggettivi (co.co.co, part-time, a termine, a progetto, occasionale, in nero, sottopagato, rischioso), al matrimonio, allo studio, ad una casa, ad una vita e ad una morte decorosa.
E’ questo l’unico modo possibile per disegnare una futura società libera, equa, democratica, progressista, rispettosa delle diversità.
Ciò che conta non è chi sfila, ma per cosa sfila. Non si tratta di sfumature.
Si tratta di abbandonare pretese particolaristiche, fare meno polemiche sul nulla, meno passerelle, meno salotti e meno vetrine.
In gioco non ci sono solo i diritti della Comunità LGBTQIA, ma quelli di tutti i cittadini.
E’ il momento di cercare nuove alleanze: nuove uguaglianze tra le diseguaglianze sociali in crescita.
Migliaia di donne, uomini, bambini, e associazioni, movimenti, organizzazioni sindacali, rappresentanti delle Istituzioni, del terzo settore, politici nel loro ruolo istituzionale di rappresentanti della Nazione, una Nazione composta anche di LGBTQIA.
E il sindaco col tricolore che apre la parata..
Un sindaco coerente che sa di intraprendere una battaglia di civiltà, per una questione di giustizia sociale, non perché alla ricerca di consensi.
Un Sindaco come quelli che aderiscono alle azioni di lotta pacifica dei Movimenti No Tav, No Muos, No Tap: validi esempi di politica istituzionale al servizio del cittadino.
O come quelli di Roma, Udine, Napoli, Milano, Empoli che, contro l’annullamento delle trascrizioni dei matrimoni omosessuali contratti all’estero fatto da Ministero degli Interni a mezzo commissario ad acta, ricorrevano al TAR. Un modo coraggioso per ribadire un diritto essenziale costituzionalmente protetto.
Contrariamente a chi, all’annullamento procedeva velocemente e direttamente, sebbene il diritto e due Sentenze avessero già sancito che cancellazione e/o rettifica potessero attuarsi solo su disposizione di Autorità giudiziaria o legge.. Salvo poi affrettarsi a celebrare la prima unione civile d’Italia ed essere salutato come paladino della comunità gay.. E’ proprio vero: il carro dei vincitori è sempre pieno!
Una marcia dei diritti..
Una marcia priva di “colore” politico, di ipocrisia, pura espressione di onestà politica ed intellettuale.
Un’occasione per dare visibilità agli invisibili, ai “sommersi mai salvati”, esuli dal diritto, desaparecidos della società civile, voci silenziose. Sposarne le istanze, viverne le ingiustizie, i soprusi continui, perpetrati nell’indifferenza quotidiana, vissuti con “dignitosa” rassegnazione.
Sì, siamo tutti froci, tutte “lelle” (modo gergale per definir le lesbiche), tutti trans.
Ma siamo anche tutti anziani, matti, disabili, stranieri, miscredenti, puttane, vittime di femminicidio e di bullismo, senzatetto, senza lavoro, senza reddito, senza diritti..
Sì, ben venga una marcia dei diritti, ..ma non chiamatelo “orgoglio gay”!
“Pensavo che la cosa peggiore nella vita fosse restare solo. No, non lo è.
Ho scoperto che la cosa peggiore è quella di finire con persone che ti fanno sentire veramente solo”. (Robin Williams)