Una donna forte, passionale e acuta. Questo è il ritratto di Livia Vernazza, la bellissima figlia di un materassaio genovese di cui Don Giovanni de’ Medici si innamorò follemente, divenendo insieme a lei protagonista di una complicata storia d’amore.
di Tanja Vittori
Livia nacque nel 1590 a Genova; suo padre, Bernardo Vernazza, la obbligò quando era ancora una bambina di 13 anni (secondo alcune fonti ne aveva 15) a sposare un socio in affari, un uomo di circa quarant’anni di nome Battista Granara. Il matrimonio fu celebrato intorno al 1604.
Il temperamento di Livia si manifestò presto: secondo alcune testimonianze dell’epoca minacciò di suicidarsi gettandosi dal balcone piuttosto che accettare di convolare a nozze con un uomo vecchio e rozzo; dai familiari non ottenne però che altre violenze, tanto che persino durante la celebrazione del matrimonio dovette soccombere allo sguardo minaccioso dei fratelli, i quali pronunciarono in sua vece i voti nuziali temendo che la giovane rifiutasse di sposare l’uomo scelto per lei.
Sono ambigue le notizie riguardanti quanto avvenne successivamente al matrimonio: il fatto che la famiglia Medici non vedesse assolutamente di buon occhio la relazione tra Livia e Giovanni, contribuì decisamente a produrre una storiografia tutta incentrata sulla pessima reputazione di lei.
Non sappiamo con certezza se la fuga sia stata la soluzione a un marito violento o se si sia trattato di una fuga d’amore con un amante, quel che è certo è che Livia, forse dopo aver dato alla luce un figlio (ma di questo non si hanno notizie certe) lasciò la casa del marito e scappò a Firenze nel 1607. Qui probabilmente si mantenne prostituendosi e venne iscritta nel libro dell’honestà, ovvero venne schedata come donna di malaffare.
Nel 1609 avvenne l’incontro che le cambiò la vita: conobbe Giovanni, all’epoca cinquantenne, e se ne innamorò, ricambiata.
L’amore di Giovanni per lei fu sincero; in una lettera datata 12 febbraio 1612 l’uomo si rivolge a Livia definendola «Illustre signora mia et unica Patrona».
Dalla corrispondenza tra loro, avvenuta soprattutto nel periodo in cui l’uomo era lontano in una campagna militare, emergono un sentimento profondo e una passione ardente che Livia esprime così: «non è possibile che io viva in questa maniera, perché non dormo né mangio e ho una passione continova che non mi lasia vivere» [15 ott. 1617]. Un episodio significativo si ebbe quando le giunse voce di una possibile rivale: la notizia la fece reagire con queste parole «fatemi aver costei nelle mani, non puosso più scrivere perché sono stracha» [10 ott. 1671]. Pare che Giovanni l’abbia tradita, ferendo profondamente la giovane donna ma che, una volta smascherato, si sia reso conto della sciocchezza compiuta e abbia chiesto sinceramente perdono all’amata. Livia non era donna che lasciasse correre e, dopo averlo tenuto a lungo sulle spine, decise di perdonarlo ma lo coinvolse in una vendetta nei confronti della rivale di cui purtroppo non conosciamo i risvolti né l’esito.
L’amore tra i due ebbe però ostacoli ben maggiori. La famiglia Medici, infatti, sin dal principio non approvò la relazione.
Giovanni era figlio naturale di Cosimo I ed Eleonora degli Albizzi, era un uomo molto intelligente, aveva talento militare, non era previsto che sposasse una donna di rango inferiore e addirittura prostituta. Le vere motivazioni di questa avversione erano di tipo patrimoniale ed economico: se avessero avuto un figlio, quest’ultimo sarebbe divenuto un possibile erede al trono e avrebbe potuto avanzare pretese nella successione dei beni. La coppia si trasferì a Venezia dove trascorse giorni sereni finché non vennero avviate le pratiche per l’annullamento del primo matrimonio di Livia. La curia di Genova accettò la tesi avanzata da Giovanni e il matrimonio venne dichiarato nullo in quanto contratto sotto forzatura.
Il primo tentativo di troncare la liaison si ebbe proprio in questa occasione: la famiglia Medici fece in modo che il primo marito di Livia inoltrasse ricorso in tribunale e presentarono una petizione al Papa per chiedere che la donna venisse rinchiusa in un monastero mentre il suo caso veniva discusso. La richiesta non venne accolta e Giovanni e Livia si sposarono a Venezia nel 1619, dopo la morte del primo marito.
La famiglia Medici aveva perso una battaglia ma la guerra era soltanto all’inizio.
Sempre nel 1619 la coppia ebbe un figlio, Giovanni Francesco, per il quale il padre nutrì un tenero affetto e di cui si occupò finché non morì nel 1621. Con la morte di Giovanni iniziò il calvario di Livia, incinta di una seconda figlia, morta soltanto venti giorni dopo la nascita. Sembra che, una volta vedova, avesse attirato le attenzioni di un ricco patrizio della famiglia Grimani, cosa che le garantiva una certa protezione dalla vendetta medicea. Ma il casato fiorentino seppe intervenire prontamente: Maria Maddalena d’Austria, granduchessa di Toscana, la attrasse con l’inganno a Firenze, dove venne rapita e dove le fu tolto il figlio. Dichiarato nullo il suo matrimonio con Giovanni, le proprietà dell’uomo vennero ridistribuite tra gli altri membri della famiglia e Giovanni Francesco fu affidato a Baroncelli, ex segretario di Giovanni.
Livia rimase imprigionata a lungo. Prima fu costretta agli arresti domiciliari nella villa di Montughi poi, forse perché si mostrò irriverente nei confronti delle granduchesse Cristina di Lorena e Maria Maddalena d’Austria, fu rinchiusa nelle fortezze di Belvedere e di San Miniato. Solo con la morte di Cristina, avvenuta nel 1637, fu trasferita nel convento delle monache di Foligno. Le granduchesse Cristina e Maria Maddalena, cattolicissime, combatterono senza esclusioni di colpi l’intrusa-prostituta trasformandosi, loro che non erano delle Medici di nascita, in convinte e solide difenditrici del casato, dimostrando di aver bene appreso i metodi dei figli di Cosimo I, Francesco e Ferdinando, che mai riconobbero i ruoli di moglie sia di Camilla Martelli che di Bianca Cappello.
Livia spese quel che le restò in avvocati sleali e per pagare i suoi carcerieri. Intanto si faceva di tutto per cancellare la sua memoria; venne persino cambiato il titolo di un dipinto che portava il suo nome e che la ritraeva in tutta la sua bellezza: da quel momento in poi, nei cataloghi medicei, venne rinominato semplicemente Ritratto di donna.
A peggiorare ulteriormente la condizione di Livia furono i pessimi rapporti con il figlio, cresciuto lontano da lei e influenzato dalla propaganda medicea, il quale la maltrattò, la minacciò di morte e cercò persino di farla incriminare per stregoneria.
Livia riuscì in qualche modo a non darla del tutto vinta ai suoi rivali. Prima di essere imprigionata, avendo intuito quel che stava per accadere ma non potendo fare nulla contro tanto potere, riuscì a far trasferire i gioielli donati dal marito, tutti di gran valore, in un convento di Murano. Le granduchesse Cristina e Maria Maddalena fecero di tutto per riaverli senza riuscirci mai.
L’ultimo atto di sfida fu contro il figlio: Livia lasciò i suoi averi ai padri della chiesa di S. Michele Visdomini di Firenze, gli unici ad averle dato un po’ di conforto nei momenti difficili e che le offrirono sepoltura nella loro chiesa quando morì nel 1655. Il lascito venne in seguito utilizzato per il restauro della chiesa.
Si concluse in questo modo la vita di una donna che non accettò il suo destino, lottò per il suo amore e per la sua dignità, per aver voluto una vita diversa
Il testo è tratto dalla ricostruzione storica pubblicata in “Memorie” nel sito www.toponomasticafemminile.com
Tanja Vittori
Sono nata a Roma e ho scoperto, quando frequentavo il liceo scientifico, che la mia strada era un’altra, quella degli studi umanistici. Ho frequentato il corso di laurea triennale in lettere presso l’università di Roma Tre e, dopo la laurea, ho deciso di proseguire gli studi magistrali nella stessa università fino alla laurea magistrale in letteratura italiana, filologia moderna e linguistica.
Sono un’appassionata di linguistica e di romanzi in attesa di realizzare il mio sogno di diventare insegnante di lettere.