di Caterina Della Torre
Donne in azienda sì, ma quando diventano mamme? Stefania Boleso ci racconta la sua storia
Si elogia spesso il valore che le donne portano nella nostra società e nell’economia contemporanea: la famosa ”womenomics” tanto elogiata dagli economisti/e stranieri e scimmiottata dai nostrani. ”Le doti salvifiche femminili” sono o considerate solo a parole, ma poi quando si tratta di fatti…
Per esempio quando un’azienda è in crisi, le prime ad essere licenziate sono le neomamme, quasi il loro valore diminuisse non solo professionalmente, ma anche umanamente e invece…
Abbiamo voluto intervistare Stefania Boleso, assurta agli onori della cronaca, perchè dopo aver scritto al ‘Corriere della Sera’ della sua vicenda lavorativa, di lei se ne è parlato molto, come se situazioni simili alla sua fossero rare o da dimenticare. E invece Stefania ha forse dato la ‘stura ad un vaso pieno’ di casi analoghi.
Lombarda di Erba (ma ora vive a Milano), classe ’71, sposata con una bimba di 14 mesi.
Che studi e che lavori hai fatto prima di raggiungere la posizione che avevi acquisito in Red Bull?
Dopo il diploma di liceo linguistico, mi sono iscritta alla facoltà di economia aziendale presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi. Ho seguito la specializzazione in marketing, e mi sono laureata nel 1997. Titolo della tesi: “Strategie creative nel settore dell’abbigliamento casual: il caso Diesel”.
Ho sempre lavorato nel marketing: ho cominciato la mia carriera in Sara Lee, divisione Household and Body Care, per poi passare nel 1999 in Red Bull, l’azienda produttrice dell’omonimo Energy Drink.
Qui sono entrata come brand manager e nel 2004 sono stata promossa marketing manager.
Ci puoi raccontare la tua storia lavorativa che si è appena conclusa?
Sono entrata in Red Bull quando il marchio in Italia era sconosciuto e la filiale tutta da costruire. Oggi la bibita è famosa anche nel nostro Paese. E la filiale italiana dà lavoro a circa 150 dipendenti.
E’ stata un bella esperienza, a tratti entusiasmante; ho dato ed imparato tanto.
Dopo 10 anni, all’età di 38 anni, pensavo che avrei potuto “permettermi un figlio, ma sfortunatamente mi sbagliavo. Al rientro dalla maternità, infatti, mi è stato “offerto” di andarmene, poiché per un taglio di costi la mia posizione non era più prevista.
Non ero licenziabile, visto che ero un impiegato quadro, e non un dirigente.
Ho rifiutato l’offerta, così sono stata messa in un locale al pianterreno, riadattato per l’occasione a ufficio, a cinque piani di distanza dal resto dell’azienda. Mi hanno tolto la responsabilità del marketing e di quello che era il mio team.
Ho resistito poche settimane; poi, per salvaguardare la mia salute e la serenità della mia famiglia, ho ceduto.
Il 19 dicembre ho firmato le mie dimissioni, ottenendo in cambio una buonuscita.
Perchè non ti sei rivolta ad un avvocato?
Avevo un avvocato, ma quando mi sono resa conto dei lunghissimi tempi della legge, ho preferito chiudere ogni rapporto con Red Bull. La mia vicissitudine è cominciata a fine settembre 2009 e forse solo a maggio 2010 sarei riuscita ad andare davanti ad un giudice. Un periodo di tempo interminabile, considerando che nel frattempo sarei dovuta andare in quell’ufficio ogni giorno.
Il problema non è solo il subire un trattamento discriminatorio al rientro in azienda, quando ciò si verifica, ma anche subire i tempi della giustizia… In questo tipo di situazioni crolla la fiducia non solo nel “sistema azienda”, ma anche nel “sistema Paese”
.
E perchè poi hai deciso di intraprendere vie mediatiche scrivendo al Corriere?
Ho scelto di raccontare la mia storia, perché in questi mesi ho conosciuto molte donne che, una volta rientrate al lavoro, sono state gentilmente (e spesso non gentilmente) accompagnate alla porta. Oppure hanno visto il loro ruolo ridimensionato, le loro scrivanie spostate, vivendo un disagio quotidiano proprio a causa della maternità. Ho scoperto che il fenomeno è molto più diffuso rispetto a quanto se ne parli.
Così ho pensato che non potevo/dovevo stare zitta, bensì dovevo denunciare quello che mi era successo, affinché la questione venisse a galla e si capisse che si tratta di un vero problema sociale.
Io, nella sfortuna di aver perso il lavoro, sono stata fortunata: ad un certo punto ho potuto chiamarmi fuori, decidere di dare le dimissioni e lasciare l’azienda. Ci sono moltissime donne, invece, che si trovano in situazioni decisamente peggiori, e quindi devono restare a lavorare, a subire senza poter denunciare, sperando che un giorno le cose cambino…
Il mio racconto ha aperto un dibattito (almeno per la ricorrenza dell’8 marzo…), e se è servito a migliorare la situazione anche di una sola donna, allora ne è valsa la pena.
Ti aspettavi una risposta del genere?
Sinceramente no. Ma evidentemente ciò che mi è successo non è un episodio isolato, bensì prassi comune di molte aziende, più o meno grandi.
In queste settimane ho ricevuto oltre 300 e-mail. Di queste, circa un terzo proviene da donne che hanno vissuto o stanno vivendo un’esperienza simile alla mia.
Molte di loro subiscono, ma non possono denunciare. E quindi cercano disperatamente un altro lavoro, che per una neomamma è davvero difficile…
Cosa pensi di fare ora? Cercare un altro lavoro? Pensi che lo troverai? Diventare imprenditice? Hai già qualche idea? Come pensi di cominciare? Rivolgendoti alla Camera di Commercio?
Mi piacerebbe continuare a fare il mio lavoro, che mi ha sempre dato grandi soddisfazioni.
Attualmente sono indecisa se rientrare in un’azienda o intraprendere la strada della consulenza, anche per misurarmi con settori diversi. Il lato positivo di tutto questa clamore è l’aver conosciuto persone, realtà, organizzazioni nuove ed interessanti; con alcune di queste ci sono già delle idee in divenire.
E si sa, da cosa nasce cosa…