L’Italia non è un Paese per donne e anche il rapporto Inps presentato in questi giorni dal Presidente Boeri ce lo ricorda e lo fa diventare “questione nazionale”.
di isa maggi
L’Italia non è un Paese per donne e anche il rapporto Inps presentato in questi giorni dal Presidente Boeri ce lo ricorda e lo fa diventare “questione nazionale”.
Con meno donne al lavoro i conti non tornano.
Se la partecipazione delle donne al mercato del lavoro non aumenterà,nel 2040 l’Inps dovrà dichiarare un mancato introito di 42 miliardi.
I conti saranno sostenibili solo con un numero maggiore di donne occupate dando il via a quel percorso”virtuoso” secondo cui più le donne guadagnano, più fanno figli e cosi l’età media della popolazione si abbassa e aumentano i lavoratori/ici che versano i contributi.
Ma qual è il “prezzo”, in termini retributivi, che le lavoratrici pagano quando decidono di diventare madri?
Evidentemente ragioniamo su valori di perdite rilevanti se a soli due anni dalla nascita di un figlio/a si attesta intorno al al 35%. Una donna su quattro circa, nei 24 mesi successivi alla nascita del bambino/a si trova infatti costretta a lasciare la propria occupazione a causa delle note difficoltà che incontra nel mantenere il proprio posto di lavoro.
Ed anche per le lavoratrici che riescono, dopo la maternità a mantenere il posto di lavoro risulta evidente un gap del 10% in meno rispetto al proprio precedente stipendio.
Lo stesso ragionamento viene fatto dal presidente Boeri anche per i lavoratori e le lavoratrici migranti e di qui le preoccupazioni per la possibile chiusura delle frontiere.
La riflessione ci porta ancora a considerare il tasso e le modalità di partecipazione delle donne alla vita economica e ai tassi di inattività delle donne. In Italia siamo ultimi, ci attestiamo al 27.1% dopo la Romania e la Croazia.
E cosi il tasso di occupazione femminile in Italia si attesta al 48,5%, contro il 61,2% della media europea.
E’ evidente che occorre porre le donne al centro del cambiamento.
Dobbiamo ripensare alla genitorialità e alla condivisone dei ruoli, all’aumento dei giorni destinati ai congedi parentali obbligatori e diffusi in ogni professione e per ogni lavoratore e lavoratrice. I due giorni previsti non solo non servono a nulla ma sono ridicoli rispetto al cambiamento che vorremmo porre in atto.
Da tempo rivendichiamo l’assoluta distanza dalla “conciliazione” come pseudo tentativo di mettere insieme il nostro lavoro professionale con il lavoro di cura, che non sono in antitesi e quindi non possono essere “conciliati”.
Da tempo immaginiamo un nuovo welfare di comunità che metta al centro il benessere delle famiglie per liberare tempo, intelligenze, vita.