Che cos’è l’”immaginario collettivo”? E’ quell’insieme di immagini, concetti, associazioni mentali, ricordi “storici”, condivisi da una molteplicità di individui appartenenti a una stessa comunità e/o società.
Fa parte della “cultura” di un popolo, perché è sulla base del confronto tra il reale e questo “patrimonio” di pre-concetti che cresce, si sviluppa, progredisce una società.
Ho usato la parola “pre-concetti” nel senso letterale, proprio per indicare che l’immaginario collettivo è composto da idee non originali, non nate da un’osservazione diretta della realtà, ma già presenti nella testa dell’individuo, tramandate e promulgate dalla società in cui vive.
Sono pre-idee che si radicano con forza nelle persone perché “respirate” e trasmesse in ogni ambito, fin dalla nascita, quotidianamente, in maniera spesso indiretta e pertanto non percepibile. In Italia, grandissima parte di queste pre-idee nasce dalle narrazioni cristiane e cattoliche: anche se alcuni archetipi sono addirittura più antichi, da essa sono stati decisivamente amplificati. La responsabilità della cultura cattolica nell’alimentazione dell’immaginario collettivo italiano non è oggetto di queste mie riflessioni, ma è immediatamente rilevabile che l’idea che la donna abbia la sua vera realizzazione in quanto madre derivi da quella cultura o che comunque quella cultura abbia contribuito in maniera determinante a rafforzarla.
Altro esempio di immaginario collettivo è la nonnina dai candidi capelli che prepara torte succulente per i nipotini. Mentre basta guardarsi intorno con cognizione di causa per accorgersi che al giorno d’oggi le nonne hanno i capelli colorati, lavorano ancora a 65 anni e magari non sanno cucinare.
Dall’immaginario collettivo nascono gli stereotipi, che non sono altro che il riprodursi di uno stesso modello che nasce proprio da qui, da questi preconcetti. A loro volta gli stereotipi alimentano l’immaginario collettivo, in un circolo vizioso che prende sempre più forza.
A questo immenso calderone di immagini e pre-idee attinge la pubblicità, per esempio, quando sceglie di rappresentare i consumatori ideali dei propri prodotti, per essere sicura di arrivare al cuore, alle teste e alle pance del pubblico. L’immaginario collettivo è rassicurante e confortevole, facilmente usufruibile, immediatamente disponibile a chiunque. Non solo, sulla base dell’immaginario collettivo si declinano i libri da colorare per i bambini, gli eserciziari di grammatica della scuola primaria, le canzoni… ovunque serva la rappresentazione di una scena di esperienza “condivisa”, si attinge all’immaginario collettivo.
Il problema sorge quando l’immaginario collettivo è ormai troppo distante dalla realtà e quando genera conclusioni basate, appunto, su pre-concetti ormai privi di verità, degenerando quindi nel razzismo, ad esempio (“l’uomo nero” dell’immaginario collettivo che diventa lo straniero pericoloso, che sfocia nel razzismo), o nel sessismo (“la principessa in pericolo” dell’immaginario collettivo diventa la donna debole e quindi inferiore, che genera discriminazioni maschiliste), o nella violenza sessuale (la solita “principessa in pericolo” promessa all’uomo che la salverà, che non ha voce in capitolo perché appartiene a chi la “prende”).
Come si contrastano le degenerazioni dell’immaginario collettivo? In primis, con la cultura, con la conoscenza. Allargare le proprie esperienze “reali” permette di accorgersi con maggiore facilità dello scostamento tra “pre-idea” e fatti concreti. Anche rendersi conto che esistono culture diverse (altri immaginari collettivi), averne esperienza diretta permette di avere un maggior numero di immagini, di concetti con cui confrontare l’immediato. E, in un secondo e conseguente tempo, allargare l’immaginario collettivo a includere le esperienze nuove, verificate, reali. Finchè il corpus di elementi con cui ci confrontiamo resta sempre lo stesso, si alimenterà sempre delle stesse immagini e idee, non sarà possibile non solo includere le novità quotidiane con cui ci confrontiamo, ma anche, e soprattutto, comprendere il mondo attuale che è molto più complesso e articolato di quanto abbiamo nel nostro immaginario collettivo. La difficoltà di lettura di questi tempi di profonde mutazioni sociali deriva spesso dal forte scostamento tra quanto concretamente sperimentiamo e quanto “idealmente” possediamo.
Ma non può bastare l’esperienza delle singole persone. Queste esperienze devono necessariamente diventare anch’esse collettive per prendere forza e fornire strumenti di progresso alla società o alla comunità a cui appartengono. Devono diventare esperienze “narrate” per entrare con forza nell’immaginario condiviso. Narrate non solo nei libri o in testi di vario genere, devono essere narrate verbalmente, oralmente e tramite immagini per acquisire forza e raggiungere la collettività, così come è successo per gli archetipi che già possediamo. La “principessa in pericolo”, ad esempio, è narrata in fiabe diverse, da secoli, è narrata nei film, nei cartoni animati, nella pubblicità. Quotidianamente e più volte al giorno. Lo stesso deve avvenire per i nuovi modelli, per le nuove idee, per i nuovi tipi. Accanto alla “Principessa in pericolo” ci deve essere la narrazione della “leader politica”, della “ingegnera nucleare”, della “premio nobel per la medicina”. Accanto al “principe senza macchia e senza paura”, deve essere narrato il “papà casalingo”, il “ragazzino sensibile”. Non solo “l’uomo nero” deve essere narrato, ma anche “lo straniero amico e compartecipe della stessa natura umana”.
Attenzione, è molto importante che le nuove narrazioni siano collettive perché non sono solo le donne, ad esempio, a dover essere informate che possono tranquillamente vivere senza uomini nella loro vita, o senza figli, per essere complete, ma anche gli uomini, in quanto “parte in causa” di un processo relazionale, come è quello che si instaura in ogni società. In una società, tutte le persone coinvolte devono beneficiare del e partecipare al cambiamento dell’immaginario collettivo, altrimenti non è tale.
Se è vero che nell’immaginario delle bambine, accanto a quella trulla di Biancaneve, ci sono anche Pocahontas, paladina dell’accoglienza e del rispetto per l’ambiente, Merida, che sfida la tradizione e le convenzioni sociali, Anna ed Elsa che dimostrano che la sorellanza è più importante del primo fidanzato che passa, a cosa serve, se, invece, queste figure nell’immaginario dei bambini non ci sono? Se nell’immaginario maschile ci sono le auto da corsa, gli aeroplani, i genietti che inventano robot e sono sempre i protagonisti, come possono i bambini attingere a modelli diversi da questi? Esaminando inoltre l’immaginario maschile delle fiabe classiche, inoltre, cosa troviamo? Che oltre alle principesse totalmente incapaci di gestire la propria vita e in balia del primo principe che passa, ci sono i principi che risolvono i problemi in un modo solo: con la violenza. Uccidono draghi (il diverso), principi stranieri e rapitori (gli immigrati), vecchie streghe o matrigne (la donna cattiva e maligna), maghi (rivali in amore)…. Anche ai bambini andrebbero mostrati personaggi maschili differenti, padri amorevoli, uomini che, come le donne positive dei cartoni animati “destinati alle bambine”, usano il dialogo, l’impegno, l’esempio, la ragionevolezza. Anche i bambini dovrebbero sapere che le donne sono persone come loro. E le bambine dovrebbero sapere che nessun uomo verrà a salvarle e che gli uomini di valore non sono quelli che ammazzano i draghi, ma gli uomini ragionevoli, empatici, intelligenti, collaborativi, rispettosi. Tutto questo va narrato sì ai bambini, ma anche agli adulti, ovviamente con linguaggi diversi.
Chi è responsabile di questo compito certamente gravoso, ma indispensabile? Semplicemente chi detiene i mezzi narrativi. La scuola, in primis, che “racconta la realtà” ai suoi alunni, gli operatori della pubblica istruzione, che scrivono e pubblicano i libri di testo usati dagli e dalle studenti. I registi, gli sceneggiatori, i cantautori, gli autori di programmi televisivi e radiofonici i pubblicitari, gli editori. Chi è responsabile dell’educazione, dell’istruzione e della comunicazione di una società non può non prendersi la responsabilità di quello che comunica. In ultima analisi, dovendo essere interesse primario di una comunità il proprio progresso e la propria capacità di comprendere e adattarsi alla mutevole realtà, dovrebbero essere i rappresentanti che questa società si è scelta, a prendersi cura di questo aspetto. Bisogna alzare il livello di consapevolezza, attraverso iniziative pubbliche programmate e programmatiche, capillari e sistematiche, non sporadici interventi di facciata, quando l’argomento è caldo.
E i mezzi ci sono: esiste l’associazione SCOSSE (http://www.scosse.org/chi-siamo-2/) (citando dal sito)“Associazione di Promozione Sociale, nata nel 2011 a Roma grazie a una start-up dell’università di Tor Vergata, che si propone di contribuire alla costruzione di uno spazio pubblico aperto, partecipato e solidale, contro ogni esclusione sociale, tramite · attività di comunicazione, informazione e sensibilizzazione; · formazione e aggiornamento professionale, seminari e convegni presso e con scuole, università, imprese e istituzioni; · progetti di educazione alle differenze in contesti scolastici ed extrascolastici; · ricerca e studi; · pubblicazioni, traduzioni, editoria e bibliografia.
Esiste la casa editrice “Settenove” (http://www.settenove.it/) che pubblica libri contro le differenze di genere, per esempio.
Esiste Giuseppina Diamanti, con i suoi “Tu lo conosci Andrea?” e “ciao Maramao”, giochi in scatola sull’educazione alle differenze fin dalla scuola materna. Esiste Afol (http://www.afolmet.it/) che tramite il suo progetto “ImPari a Scuola” lavora nella scuola. Esiste Lorella Zanardo con il suo eccezionale lavoro “Nuovi occhi per i media”, nato in seguito a “Il corpo delle donne”. Esistono, in ogni comune, associazioni e gruppi che lavorano per allargare la consapevolezza sociale, non solo per quanto riguarda i rapporti uomini e donne (che però dovrebbero essere prioritari, visto che la società è equamente composta in primis dagli uni e dalle altre), ma anche per quanto riguarda gli immigrati, per esempio.
Nel mio piccolo comune lombardo, ad esempio, esiste la Associazione A.C.C.M. (Associazione Culturale Cittadini del Mondo) (cit: è un’associazione di volontari, che intende favorire il processo di integrazione dei cittadini stranieri nella società italiana attraverso la conoscenza e gli scambi culturali tra i vari gruppi etnici presenti in omissis e tra questi e la popolazione locale. Si impegna inoltre a sviluppare rapporti di solidarietà reciproca e farsi portavoce dei bisogni dei cittadini stranieri presso gli Enti locali. Per realizzare quanto sopra esposto A.C.C.M. organizza incontri culturali in senso lato ed informativi sulla legislazione che regola l’immigrazione e la permanenza in Italia, sul mondo del lavoro ed anche su problematiche del vivere quotidiano, oltre ad eventi che mirano a favorire la socializzazione attraverso l’incontro interpersonale ed il confronto culturale ed artistico (cucina, prodotti tipici di paesi diversi, musica etc.). L’Associazione è attiva anche nella costituzione di una rete con altre organizzazioni, con finalità analoghe alle proprie, presenti nella nostra zona. ). Cosa aspettiamo dunque?