Quello della persecuzione dei Rohingya non è un fenomeno nuovo, ma riaccende i riflettori su un tema spesso dibattuto, lo stupro di guerra.
L’ONU parla di “pulizia etnica”, e si consuma al contempo un ulteriore dramma, quello delle tante donne che finiscono vittime di violenze e abusi lungo la strada che dovrebbe condurle verso una qualche libertà, e che le riduce spesso a ombre e simbolo di un odio razziale che percorre il mondo in ogni suo angolo.
La Birmania non ha mai desiderato avere attorno i Rohingya in quella che invece sembra esser sempre stata la loro terra d’origine, e sono iniziati inesorabili viaggi della speranza che hanno condotto interi gruppi verso il Bangladesh, spinti per lo più in zone di confine e in condizioni di estrema precarietà. Ha destato perplessità l’incapacità della leader birmana e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi di fronteggiare la crisi in modo risoluto, tanto da prendersi anche un rimprovero dal ben più assennato Mohammad Yunus, che dell’assistenza ai poveri ha fatto una vera e propria missione, mettendo in campo efficaci progetti di microcredito proprio in Asia Meridionale. E questo ritardo della Suu Kyi, culminato recentemente nell’annuncio di un piano d’aiuti per i Rohingya attraverso la creazione di un’agenzia non controllata dalle forze militari e affiancata da aiuti stranieri, fa arrabbiare ancor più perché così lontano da quell’immagine della donna leader e solidale, empatica anche e soprattutto verso le altre donne, che avremmo voluto vedere.
I racconti delle donne Rohingya sono tutti simili e agghiaccianti: bambini strappati dalle braccia delle madri da soldati addestrati alla violenza, interi nuclei familiari distrutti e sorelle e amiche separate per sempre. Il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione ha tracciato un resoconto inquitante, sottolineando come “More than half of the gender-based violence incidents reported so far to UNFPA and its partners by Rohingya women refugees in Bangladesh are sexual assault, an exceptionally high proportion. This speaks to a very worrying trend”. E chiaramente, come spesso accade in queste circostanze, si ricorre a misure estreme come aborti non sicuri attraverso l’assunzione di misoprostolo, noto farmaco solitamente utilizzato per le ulcere gastriche nonché mezzo di fortuna per porre fine a gravidanze indesiderate. Non finisce qui, dal momento che il risultato di rapporti multipli non protetti spesso è la trasmissione di malattie sessuali, come l’HIV, da cui l’AIDS, che sta diventando una piaga anche in Birmania.
Queste donne, spesso giovani e prive di una qualsiasi forma di protezione o privacy all’interno dei campi di fortuna allestiti per sopravvivere, riportano traumi fisici e psicologici indicibili. Non potranno mai dimenticare le minacce, le conseguenze delle penetrazioni forzate, degli sfregi, delle ferite. Non potranno mai dimenticare il lutto, la sensazione di isolamento, la paura della morte.
Nessuno potrà mai restituire a queste donne il presente che è stato loro brutalmente rubato. Ed è giusto aspettarsi dalla politica, e in primis proprio dalla Suu Kyi, un intervento deciso e non sole chiacchiere.
Non dobbiamo dimenticare che lo stupro è uno dei volti, ma tra i più brutali, della guerra di sterminio, volta a distruggere il futuro di una popolazione, estirpare una cultura – in questo caso quella musulmana in una terra per lo più buddhista – violarla ed eliminarla per sempre. Il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite si sta muovendo per accertare la presenza di “crimini contro l’umanità” attraverso l’apertura di un’indagine indipendente relativamente agli abusi di militari e forze di sicurezza. Attenderemo sviluppi.