GLI OSTACOLI DI ONDINA – Uno spettacolo per le scuole celebra la Valla, atleta che vinse tutto
Torna al Centro Asteria di Milano, dopo il travolgente successo dello scorso anno, Ondina Valla, oltre ogni ostacolo, l’”one woman show” concepito in otto quadri (gli “ostacoli”, appunto) dedicato a un’atleta – e una donna – simbolo del Novecento.
“Ondina non è nemmeno un nome vero”, commenta Lorenza Fantoni, la bravissima attrice che la impersona. In effetti, era proprio il nome il primo ostacolo da superare: Trebisonda. Prolisso, enfatico, estenuante. Ma soprattutto lento per lei, la ragazza-fulmine coi piedi per terra. Così era designato il vicolo bolognese in cui la campionessa nacque, città sul Mar Nero patria del mitico Enea. Il capostipite della stirpe italica, il prototipo del “mediterraneo di razza ariana” decantato dal regime fascista. Talmente nordico da provenire… dalla Turchia!
Lei, Trebisonda, spirito indipendente e cocciuto, sola femmina dopo quattro maschi, ebbe nel padre e nei fratelli i primi sostenitori. La madre invece la contrastò (secondo ostacolo), esigendo da lei quelle doti di grazia e sottomissione che la figlia non ebbe mai. A riprova che le gabbie arrivano da chi ci sta accanto, e la solidarietà fra oppressi/e è un favoleggiamento romantico.
Ma, se la mamma rompeva, la schiena doleva; prodromo di quella spondilosi vertebrale che le avrebbe ostacolato l’attività agonistica dopo Berlino (e siamo a tre), quindi vinse tutto e subito, oltre alla sua specialità: salto in alto, staffetta, nel dopoguerra persino lancio del peso e altro ancora. Record imbattuti fino agli anni 2000.
Il fascismo, lo sappiamo, era un regime reazionario, illiberale, violento, razzista; ma pure machista e misogino. Tuttavia…
Quel regime da un lato teorizzava l’inferiorità delle donne, confinandole in ruoli domestici a regalare figli alla patria e negando loro i diritti politici; dall’altro ne incoraggiava, almeno in determinati ambiti, la visibilità, l’agonismo e la partecipazione pubblica.
Le italiane dovevano essere forti, sane, intelligenti per procreare figli altrettanto forti e ardimentosi. Sempre madri per cannoni, certo. Ma, in quei momenti di giovanile euforia, sullo sfondo d’un paese profondamente arretrato, contadino, povero – la famiglia di Trebisonda/Ondina non faceva eccezione, la tessera significava posto fisso e prestigio ed espressioni come libertà di scelta risultavano del tutto incomprensibili -, esse apparivano e si sentivano, come tanti altri coetanei divenuti poi sinceri antifascisti (Pasolini, Scalfari, Fo, Soldati ecc.), ribelli e futuriste, uniche e smaglianti.
Ondina fu ribelle suo malgrado. Il suo entusiasmo olimpico venne sfruttato dal sistema, ma lei, per sua fortuna, restava una ragazza; la cavalla pazza della cinepresa, invece, la Leni Riefenstahl, era un genio sì, ma nazista. Nazista vera.
Valla incarnò le contraddizioni di quel sistema e, alla fine, le dominò. Anzi, le cavalcò. Letteralmente.
Ché i fascisti non erano poi soli. Il filantropo de Coubertin, quello del “non importa vincere ma partecipare”, così si esprimeva a proposito della partecipazione delle donne alle Olimpiadi: “Un’Olimpiade femminile non sarebbe pratica, interessante, estetica e corretta”. Già, anche l’estetica contava, perché si trattava di esibirsi a gambe nude, ed era impudico, avrebbe alimentato negli atleti maschi frizzi libidinosi. Vi ricorda qualche polemica recente?…
Insomma Ondina dovette superare ostacoli non solo in patria ma fuori perché, quando si tratta di sottomettere le donne, i maschi, democratici o no, si trovano curiosamente d’accordo. Il problema, l’ostacolo grosso, era sempre quello, il genere (e quattro): sì, proprio il termine che ancor oggi incute tanto terrore nei benpensanti, e nello spettacolo emerge con disarmante semplicità, con una fattività priva d’ideologismi. Ammirando la recitazione apollinea di Lorenza Fantoni mi sono convinta che Ondina abbia affermato il suo semplicemente travalicandolo, mettendone in mostra l’atletica politezza. In lei s’è vista la donna oltre la donna, in lei si sono identificate tutte. E tutti.
D’altronde, se “obstat sexus”, a dare un sigillo di sacertà agli ostacoli non poteva essere che la Chiesa di Pio XI (e cinque): fu lui a premere sul regime affinché le sportive non partecipassero alle Olimpiadi di Los Angeles del ’32 e Ondina dovette rinunciarvi proprio nel pieno della sua forma fisica; ma si prese la sua bella rivincita quattro anni dopo, quando fu lo stesso papa Ratti a riceverla in Vaticano, stringendole addirittura (!) la mano. Il trionfo berlinese fu anche questo. Il ruvido pastore di Desio passerà alla storia per le sue illuminazioni tardive: sulle donne, sugli ebrei, sul nazifascismo…
Ma poi, i dubbi (e sei): quel terzo posto al fotofinish sempre a Berlino, davanti a un dittatorello con baffi alla Chaplin, ma molto meno divertente, che ciancicava in un tedesco di cui Ondina non capiva nulla, era davvero della sua amica/rivale Claudia Testoni? No, non era suo, Claudia era giunta quarta, e nonostante ciò avrebbe continuato a lottare, a vincere in seguito, meno di Ondina, malgrado fosse proprio lei la favorita: una bella lezione per tanti giovani d’oggi, pronti ad appendere le scarpette al chiodo alla prima sconfitta…
Ecco, l’altro ostacolo, l’occhialuta Claudia Testoni (e sette): assieme a Ondina fin da piccola, due parallele, che come si sa non s’incontrano mai, ma procedono a fianco a fianco. No, in pista vinceva la più forte, non ce n’era per nessuna, ma fuori erano sempre loro, la bionda e la nera, la lince e l’occhialona. Benché l’ostacolo più insidioso non provenga mai da fuori, ma sia in noi, anzi, ci definisca, alberghi nel nostro cuore (e otto): Ondina e la debolezza, Ondina e la paura di non farcela, Ondina e la sconfitta, Ondina e il senso di colpa…
Per tutto questo, e anche di più, Ondina siamo noi. Nell’impertinenza giovanile, negli abbagli e negli errori, nella forza dell’innocenza non ancora esausta. Nell’essere vive. L’imprendibile bolognese si sarebbe fatta impalmare relativamente tardi, a ventotto anni, dal noto fisioterapista e sportivo Giorgio De Lucchi, col quale poi avrebbe aperto una clinica per le malattie fisiche. Niente di eugenetico, anzi, l’esatto contrario del sogno, o meglio del delirio, nazifascista. Avrebbe avuto un figlio solo, Luigi. Si sarebbe spenta a 90 anni, nel 2006, dopo aver essersi aggiudicata pure il cavalierato della Repubblica. Nel ’78, per la verità, le trafugarono la magica medaglia berlinese: mai più ritrovata, riprodotta poi da un artigiano per ripagarla del furto vigliacco, ma sempre rimpianta. Anche questo, alla fine, un ostacolo. La perfezione non abita qui.
Era bellissima, agile, scattante, contemporanea. Quest’allegra e potente femminilità è magistralmente resa sul palco da Fantoni e dalla regista e amica Lisa Capaccioli, allietata dalla vivacità della bionda e simpaticissima figlia di Lorenza, dalla presentazione appassionata di suor Elisabetta (ex-atleta e insegnante di scienze motorie) e dal rigore empatico del prof. Bienati. Tante esistenze in un grembo di sorprendente normalità.
ione. Vive e lavora in provincia di Milano.
Daniela Tuscano. Insegnante e blogger, eclettica e multiforme. Ha scritto quattro libri e si occupa da sempre di politica delle donne, cultura, arte e religione. Vive e lavora in provincia di Milano.