L’anno si conclude con questo sangue; ed è sangue povero. Eppure essi hanno fede. In noi, oltre noi.
Fa pena Spelacchio, l’abete rosso che illuminava (si fa per dire) il Natale di Roma, giunto agonizzante alla mèta e dichiarato ufficialmente morto. Fa ancor più pena adesso, nella seconda parte delle feste.
Per taluni i suoi rami poco fronzuti sono un’allegoria del degrado in cui versa la capitale. In realtà quel simulacro di natura non rappresenta altro che se stesso, ed è già troppo. Non c’è mai stata pietà per l’abete piangente, come non ce n’è per i suoi compagni di sventura, all’apparenza floridi, che adornano le piazze del mondo. Anch’essi, dopo il fulgore delle feste, giungeranno esausti al macero e nessuno vi baderà più.
Nessuno ha mai badato nemmeno a Bruno, un cagnone di nove anni che un manto l’aveva, soffice e inutilmente copioso. Numerosi fruitori di social network ne avevano condiviso più volte la fotografia. Ma lo sguardo dolcissimo di Bruno, alla fine, s’è arreso. È morto là dov’era nato, forse ignorato, forse compatito da altri sguardi senza fortuna, che l’avrebbero voluto ma non ce l’hanno fatta. Perché ce ne sono tanti di problemi e tu sei un eccesso di dolore, il tuo spazio fuori misura, i tuoi anni un’escrescenza.
Vegetali e animali se ne vanno senza sfogo, col nudo esistere e per questo la loro dipartita lacera il cuore. Gli umani non sono mai così inermi se non quando s’affacciano al mondo – o l’abbandonano. E lì, in quell’attimo di pura dipendenza, la parentela con gli altri viventi emerge tragicamente uguale. Dovremmo rammentarlo sempre. Ma siamo figli ingrati, e generiamo figli traditi. È il caso di Karim, neonato siriano rimasto orbo e orfano di madre a seguito d’un bombardamento. La Siria in guerra è sparita dai notiziari, come una Betlemme contemporanea. Karim ha perso tutto, se non la sua bellezza che rifulge tanto più intatta nella parte immacolata del volto. Ma lo sfregio, quell’atroce virgola al posto dell’occhio rammenta la casualità disattenta del destino. Ci dice precisamente che si è Karim quando i congeneri smettono di pensarci. Allora, come le piante e gli animali, diveniamo numeri, danni collaterali o semplicemente fatica. Karim il monocolo svela la nostra cecità interiore.
Il Natale esiste per i Karim, per i numeri, per gli accidenti della storia, per chi non ha potere né riscatto. Il fanciullo divino non è un Dio dolciastro, ma condivisione dell’estrema fralezza; l’attimo più puro della vicenda umana ma anche il più prossimo allo stato naturale, dove la casa è una grotta o una stalla, con armenti e fieno.
Natale non si esaurisce in un giorno. È giunto come un rifiuto delle gerarchie e dei grattacieli mentali che l’uomo erige quando s’illude di saperne di più, e prevarica sugli altri.
Abbiamo visto tanti presepi viventi in questi ultimi anni. L’immagine più veridica, che riassume le storie di tutti i dimenticati, è oggi quella dei cristiani mediorientali. Ecco dunque, nei campi profughi, numerose Marie con bambino, anch’esse strappate alla loro terra, perfino da una Betlemme in cui oggi i fedeli in Cristo, perseguitati e scacciati, si contano sulle dita d’una mano. Se della Siria non si parla più, di costoro i “mass-media” non hanno mai parlato. Tantomeno in Occidente, più occupato a smontare (e profanare) presepi di gesso che a badare a quelli autentici. L’Egitto, terra d’esilio, la Menfi del Tasso, è attualmente, essa stessa, terra di martirio. A pochi giorni di distanza le chiese copte hanno subito due attentati. L’anno si conclude con questo sangue; ed è sangue povero. Eppure essi hanno fede. In noi, oltre noi. Ma a noi è demandato il compito di non spegnerla, di tornare in basso, alla pianura, alla relazione. Altrimenti saranno soltanto feste collaterali. Snaturate, come ha denunciato papa Francesco.
© Daniela Tuscano
(Foto: thanks to Aiuta un Cane dal Canile, Syria Charity, Aiuto alla Chiesa che Soffre, This is Christian Assyria)