di Cristina Obber
Primo capitolo de ”La ricompensa”
Questa la ricompensa, spacciata per amore.
”Alfredo pensava a Irene tutti i giorni. Non si era mai perdonato di averla perduta. Provava un fremito sottopelle quando ne immaginava il sorriso. Non sopportava come lo smidollato la guardava, come la baciava. Li seguiva, li spiava, li odiava. All’uscita dei cinema, o in giro per il centro, erano sempre sorridenti, come ragazzini disgustosamente spensierati, senza rispetto, senza pudore.
Il pensiero di spiaccicarli sull’asfalto gli aveva fatto gonfiare la patta più volte, ancor più che a pensarla a cosce aperte sopra di lui, sudata e languida. Sentiva il suono delle sirene, le urla dei passanti di fronte ai due corpi insanguinati, l’uno sull’altro, gli arti scomposti, sussulti nervosi, giusto il tempo per capire. Ma poi aveva cambiato idea: meglio da sola, troppo comodo unirli romanticamente nell’ultimo respiro. Lo smidollato avrebbe dovuto pagare l’insulto, l’affronto, la spregiudicatezza con la sopravvivenza.
Ogni sera, per riuscire a dormire, Alfredo fantasticava.
Di stendere il cadavere di Irene sul tavolo di una sala operatoria e farla a pezzi meticolosamente e freddamente come in fondo lei aveva fatto a pezzi lui.
O di aspettarla sotto casa, nel vano scale, tra le cantine e l’ascensore, per cingerle al collo la stessa cravatta con la quale avevano giocato spesso, a letto.
Fantasticava, sulla paura nei suoi occhi, su suppliche e disprezzo, sull’espressione contratta che le avrebbe lasciato sul volto.
Fantasticava, e si addormentava sereno.
Quel mattino si alzò dicendosi che era il giorno giusto. Si sentiva pronto, e forte, forte e deciso. Come non mai. Come avrebbe dovuto essere quel giorno, pensava, quando lei lo aveva liquidato per l’ultima volta sotto casa, umiliandolo, dicendogli che aveva scoperto con quell’altro cos’era la felicità, cos’era una storia d’amore e cos’era un uomo.
Tutto quel rancore invisibile aleggiava su Irene, pronto a scorrerle addosso come lava, come sangue che svuota le membra.Inconsapevole e incosciente, Irene assisteva dottori, strimpellava il pianoforte, ometteva sensazioni cercando di dimenticare. Anche lei pensava ad Alfredo tutti i giorni. Poteva accadere al risveglio o al tramonto, sterilizzando un bisturi o mescolando lo zucchero nel caffè, in coda all’ufficio postale o intorno a un tavolata di amici. Prima o dopo, nelle sue ventiquattr’ore zeppe di entusiasmo, qualcosa di lui riappariva, anche solo per un istante: in uno sguardo, una pietanza, una frase o una vibrazione nell’aria. Questo la irritava. Ci vuole più tempo, pensava. Devo avere pazienza.
A volte, un brivido le percorreva la schiena, inspiegabilmente, presagio distratto di una verità brutale.
Accadde anche quel giorno. Dalla finestrella del bagno, con la maniglia difettosa, filtravano un sole pallido e spifferi di vento di un gennaio gelido. Irene si stava pettinando, scioglieva i nodi tra i suoi boccoli come fossero i nodi della sua esistenza, di quella storia che ancora le lasciava ombre sul volto, quasi per caso.
Quando il vaso di fiori cadde dalla lavatrice, trascinato da una folata insistente, Irene ebbe un sussulto, come se quel vento l’avesse spinta d’un tratto indietro, verso altri nodi, altre ferite. Quando aveva raccolto da terra se stessa e i brandelli delle sue mutandine.
Si assicurò che il rumore non avesse svegliato Stefano e raccolse i cocci del vaso, e di Alfredo, dal pavimento.
Si passò sulle guance un altro po’ di fard, stese sulle labbra morbide del rossetto e uscì incontro a un’altra giornata di lavoro.
Intanto Alfredo camminava sicuro di sé. Dio, come si sentiva sicuro, il mondo davanti a lui, nelle sue mani. Irene nelle sue mani, con tutta la sua solarità, la sua sfrontatezza, la sua presunzione di poter fare a meno di lui.
Lui non era un rivoluzionario, non aveva mai condotto battaglie, mai sfidato ideali, figuriamoci la vita.
Quello era il suo momento, l’ora del salto dalla barricata, del pugno chiuso, del braccio teso, del carro armato.
E la sua forza stava tutta nella tasca, dove stringeva la vendetta al punto che quasi gli facevano male le dita.
Giunta nel sotterraneo dell’ospedale Irene si sistemò i capelli guardandosi nello specchietto e scese dall’auto con slancio, e con slancio Alfredo le conficcò il coltello nelle viscere, quelle viscere che ancora gli appartenevano, ma che gli avevano negato il grembo. Irene pensò di dire “Ancora?”, ma rimase con la bocca semichiusa, sospesa. Sentiva un grande calore inebriarla, stordirla, inzupparle le cosce. Lui la guardò scivolare ai suoi piedi, si godette la tristezza del suo sguardo, il sottile lamento. Breve, ma abbastanza lungo da appagarlo totalmente. Un piacere dal profondo, più intenso dell’ossessione e del sesso. Una sensazione di onnipotenza.
Si allontanò con in tasca la sua Irene, il bene, il male e ogni sua soggettiva sfumatura.”
1 commento
Un romanzo che si legge tutto d’un fiato. Scritto con realismo nel descrivere i vari personaggi, i loro stati d’animo e con le loro personalità, quasi tutte intrise di solitudine. Alfredo il classico uomo, mi riesce difficile usare questa parola, un uomo è ben altra cosa, che promette, illude, trae solo i benefici dai rapporti con le persone, ma è un codardo. Irene la donna che non ha il coraggio di ammettere quello che sa benissimo. Anche lei è codarda. La famiglia di Irene molto simile a quella di molti di noi. Chi non ha un segreto che si custodisce cercando di rimuoverlo? La prorompente vitalità di Consuelo che come una palla da bowling, sconvolge i birilli di una famiglia. Mi auguro in un futuro di poter leggere ancora di questi personaggi. Che Irene ritrovi la pienezza del suo essere donna e chi vive nella vigliaccheria, trovi la giusta pena.